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Il titolo è quello di un thread nel nostro forum.
Stiamo attraversando un periodo surreale, caratterizzato dall'hastag #IoRestoaCasa, un provvedimento che vorrebbe cercare di fermare la pandemia che sta sconvolgendo il nostro modo di vivere.
Sentiamo la necessità di svolgere attività che ci impegnino, per non essere solo pervasi dal clima di incertezza e paura che ci avvolge. Nasce il desiderio di rendere più concreti i contatti virtuali che anche il nostro spazio permette di coltivare. Alcuni allora, parlano di ciò che stanno facendo, dal giardinaggio alle riparazioni, dai restauri alle ricerche linguistiche, ed il colloquio su ciò che ci appassiona ci fa sentire più vicini, più partecipi alle sensazioni dell'altro.
La mia attività con l'obbligo di restare a casa, non è in realtà cambiata molto rispetto a quella precedente, anche se mi mancano, ad esempio, l’aperitivo del sabato con Roberto o il paio d'ore di passeggiata in bici, ora che è giunta la primavera.
Ciò che è cambiata è l'atmosfera che mi circonda, il martellamento continuo delle tristi notizie che arrivano dalla TV, che leggo in Internet, la sensazione di una minaccia incombente, diffusa, invisibile, nascosta dentro una natura che, seduti in giardino, appare normale. Il cielo è azzurro come prima, le foglioline della betulla crescono, il lucido verde dell'evonimo riflette i raggi del sole che risplende ancora, i merli raccolgono le briciole di pane nel prato inondato dalle margherite e, a volte, devono contendersi i pezzi più grossi con una ghiandaia. Questa natura non dà alcun segnale del dramma che una sua specie, forse vittima di un delirio di onnipotenza, sta affrontando. Per essa l'homo sapiens sapiens non è più importante di qualsiasi altra specie: è un suo aggregato di particelle che può disgregarsi e scomparire senza che la sua evoluzione ne risenta. Qualcosa cambierà e l'agitazione di una sua piccola parte si dissolverà in un nuovo equilibrio.
Seguo il sito, come faccio da oltre tre lustri; mi dedico un po' al giardinaggio ed all'orticoltura: ho messo a dimora piantine di peperoni, melanzane, pomodori, zucchine, insalata, sedano, basilico, prezzemolo, che innaffio quotidianamente;
leggo qualche libro: "La realtà non è come ci appare" e "L'ordine del tempo" di Carlo Rovelli;
rileggo i racconti di Primo Levi (le mascherine obbligatorie mi hanno ricordato "Protezione", dove l'obbligo è una corazza metallica che protegge dalla incessante pioggia di micrometeoriti omicide che nessuno vede); quelli di Luis Sepulveda in "Patagonia Express" ed anche "I promessi Sposi".
Passo abbastanza tempo al telefono con amici e parenti, e mentre telefono, faccio scarabocchi astratti con la penna biro che poi completo e raccolgo nella cartella "Coronabiro", inventando un titolo. Il seguente, ad esempio, è
PigrecoDay
chissà perché: una medaglia virtuale ed una menzione speciale per chi dovesse indovinare :-)
Sistemo un po' di mie cose e nel farlo mi imbatto nel mio passato.
Inevitabilmente (ed inutilmente da sempre), mi chiedo quale sia il senso della vita, pur essendo la mia radiazione di fondo filosofica, l'assenza di un senso negli accadimenti della natura. Radiazione che non mi impedisce di continuare a chiedermelo, e perfino di immaginare, o addirittura sperare, che abbiano un fondamento, in una realtà inaccessibile alla nostra ragione, le fiabe che amiamo raccontarci.
Mi sono così imbattuto nei disegni che, con penna biro, pennarelli, o rapidograph, tracciavo durante la naja.
Sono uno dei tanti che la faceva più che malvolentieri, che soffriva obblighi che gli apparivano insensati e pieni di concetti odiosi, come la guerra, il nemico ecc. Ero un fante che svolgeva il suo servizio (parole grosse) a Genova, dopo tre mesi a Spoleto per un corso sottufficiali cui avevo rinunciato. Ero un Leone di Liguria dunque.
Ho scannerizzato quei disegni (non ho il coraggio di buttarli via: non occupano in fondo molto spazio), e li ho raccolti in una cartella.
Non esiste alcun motivo perché qualcuno, a parte qualche famigliare, guardi gli originali e nemmeno che sfogli la cartella sul computer.
Poiché dispongo di questo spazio, e siamo in un'epoca in cui, molti, forse troppi, espongono se stessi e la propria quotidianità, ho osato mostrare anche questi miei disegni, come fatto molte altre volte, pubblicando, nel mio blog, raccontini, vignette o eyouviani con FidoCadJ, ritratti ed altro con acrilici, matite ed acquerelli.
Sono disegni di chi avrebbe desiderato essere un disegnatore, che si è affidato alla speranza che emergesse un dono naturale e non ha mai faticato per imparare, riuscendo solo ad ammirare la fantastica ed inarrivabile abilità di quelli veramente bravi. Mi sono sempre rifugiato nella frase di Picasso che più o meno dice: "A quattro anni disegnavo come Raffaello, poi ci ho messo una vita per imparare a disegnare come un bambino"; io a quattro anni già non disegnavo come Raffaello, per cui era assurdo ed inutile cercare di imparare a disegnare come lui :-) .
Vabbe', ecco dunque una delle mie attività di questo periodo: la digitalizzazione degli schizzi accompagnata da qualche commento
Amricord dla naja
La cartolina di leva mi arrivò il 14 luglio del 1974.
Mi ero sposato quindici giorni prima, tre mesi dopo la Laurea. Avrei dovuto frequentare il corso sottufficiali a Spoleto.
Tre giorni dopo il capitano della compagnia ci informò che chi era sposato poteva rinunciare al corso.
I miei calcoli stavano procedendo bene: il matrimonio mi avrebbe permesso un avvicinamento a casa!
Pensavo...
Dopo tre mesi arrivò il trasferimento: ero stato assegnato alla fanteria d'assalto dei Leoni di Liguria di stanza a Genova.
Non era l'avvicinamento che mi aspettavo :-( .
Partii un pomeriggio da Spoleto ed arrivai a Genova alle cinque del mattino del giorno successivo.
La compagnia cui ero stato assegnato, partiva per il campo al Col di Nava, e così fui caricato su uno dei camion che ci trasportava a destinazione. Attraversammo il viadotto del Polcevera di cui, allora, nessuno immaginava la fine.
Ci stabilimmo nel Forte Pozzanghi. Faceva molto freddo. Gli stanzoni del forte non erano certo riscaldati, la temperatura esterna era di -10° e quella interna non molto di più. Sui muri vicino alle brande circolavano scorpioni, le coperte in dotazione non erano sufficienti per stare al caldo, ed avevo mal di denti.
Non ricordo quasi nulla di quel che feci, se non che ci si doveva lavare all'aperto e che per i bisogni corporali erano predisposte assi di legno su un fossato.
Riuscii, non so come, a superare la dura prova del campo e dopo una settimana si ritornò alla base.
Pur rimanendo triste, con la strana sensazione di essere inesistente, riuscii a tranquillizzarmi.
Per distrarmi quando potevo disegnavo. Ecco alcune vedute della
Caserma di Genova-Sturla
ed alcune dotazioni dell'
equipaggamento di un fante
gli anfibi
il cinturone
il basco
lo zaino sulla branda
Laboratorio / rifugio
Avevo capito che offrendomi per la corvée regimentale di primo mattino, dopo aver spazzato il piazzale delle adunate e gli spazi laterali, liberandoli dalle foglie, il compito del giorno era finito. Potevo allora imboscarmi. Dicevo a qualcuno, furiere o piantone di camerata, che se c'era bisogno di me per raccogliere qualche nuova foglia caduta, mi avrebbero trovato nell'armeria che era gestita dall'amico Giorgio.
Lì mi rifugiavo. C'erano:
un banco di lavoro
un tavolino
dove leggevo, scrivevo o disegnavo, davanti ad
un finestrone
mentre fumavo qualche sigaretta
le Nazionali semplici che costavano 160 lire al pacchetto( solo le alfa costavano meno: 140 lire)
mentre mi faceva compagnia la musica che mi regalava
una radiolina a transistor
Era il frutto di un affare che mio suocero aveva concluso proprio il giorno del mio matrimonio.
Un distinto giovane gli si era presentato in casa con la promessa di un lavoro per il futuro genero. Il lavoro era affine alla mia Laurea perché riguardava apparecchiature elettroniche. Bastava acquistare una radiolina a transistor, per la modica cifra di venticinquemila lire, ed il mio futuro lavorativo era assicurato.
Si prese molte parole Toni, dai suoi figli, per essere stato tanto ingenuo da credere ad una simile fandonia.
La radiolina però la portai con me per tutta la durata della naja e mi ci affezionai: non mi avrebbe procurato un lavoro, ma la compagnia sì. Poiché la pila interna si esauriva rapidamente, l'avevo dotata di un pacco di batterie supplementare più capiente (un paio di pile rettangolari da 4,5 V) assicurato alla radiolina con più giri di filo, una soluzione molto utilizzata a quei tempi!
Nella tranquilla stanza-rifugio mi venivano a trovare, non appena trovavano l'occasione di imboscarsi, amici commilitoni per
uno spuntino
od una
partita a briscola
Io preferivo gli scacchi (è per quello che c'è la scacchiera sul tavolo).
Una volta si mise in posa per un veloce ritratto l'amico
Marino detto La Vecchia
A memoria invece cercavo di realizzare il ritratto di qualche
ispezionatore graduato
Seduto sulla branda della camerata, guardavo
il finestrone
che per me era un po' come la siepe di Leopardi ne "L'Infinito"
Ogni tanto qualche plotone partiva per la guardia in
polveriera a Godiasco
Toccò anche a me.
Una volta fui addetto al telefono, un'altra sguattero/cameriere.
Servivo i vassoi ai commilitoni che si affacciavano affamati alla finestra di consegna
e, dopo il rancio, (una sintesi per indicare il lauto pranzo) appendevo
il giubbino
alla finestra della mia
postazione di lavoro
Poi, dopo l'abbuffata della truppa, pulivo e riordinavo la
sala mensa
Quindi si rientrava
nella camerata
Io guardavo sempre
fuori dalla finestra
mentre
il piantone
controllava.
C'era chi leggeva
e chi scolpiva, come
Carmine
Arrivava infine
l'ora di dormire
Prima di addormentarmi, guardavo la notte oltre i vetri della finestra
Esisteva per fortuna la
Libera uscita
ed allora mi recavo nel
bar del paese
od al
ristorante
Poi si ritornava alla solita
vita di caserma
Mentre vivevo quella vita ne sentivo solo il fastidio.
Però ora, a distanza di nove lustri, non lo avverto più nel corpo e nella mente.
Vennero in molti a salutarmi alla stazione, Brignole o Principe, non ricordo più quale, quando ottenni il precongedo.
Ero felice di tornare a casa ma sentivo che avrei perso qualcosa.
Erano gli amici che avevo trovato in quel periodo: sapevo che mi sarebbero mancati.
Mi sarebbe mancata la loro tristezza che, quando c'era, era identica alla mia.
Mi sarebbe mancato il loro conforto scherzoso quando vedevano in me la tristezza simile alla loro.
Mi sarebbero mancate le passeggiate in libera uscita con gli amici commilitoni.
Come Marino "La Vecchia" o l'architetto Ottavio, amante dell'arte e della natura, botanico eccezionale che mi illustrava le caratteristiche vegetali del parco di Nervi, o quelle architettoniche della cattedrale di San Lorenzo, o le storie di San Fruttuoso, i segreti di di Portofino, l'incanto di Vernazza o Monterosso, i colori di Camogli mentre addentavamo una gustosissima focaccia.
È così che quella cosa che chiamiamo tempo, ha cancellato dentro di me le tenebre ed i disagi di un periodo che mi sembrava doloroso, lasciando di esso solo le luminose e calde luci dell'amicizia.
Gita a Nervi
Avremmo dovuto incontrarci a naja finita.
Ce l'eravamo promesso ed Ottavio mi disegnato la sua casa con una naturalezza di segno che contemplavo, come le magnifiche sculture che realizzava con il cilindrico sapone bianco da barba che ci era fornito.
Conservo e rileggo le lettere che ci siamo scambiati.
Ma la vita poi cambia, e certe onde si attenuano.
Rimane però sempre una radiazione di fondo e dalle sue increspature, come una vendetta per l'eccessiva sofferenza di allora, si sviluppa e si amplifica, mentre guardo i disegni, una fluttuante nostalgia.