Con questo articolo propongo, brevemente e sommariamente, di trattare un argomento delicato ed importante quale quello del rapporto tra carica e massa dell'elettrone. Ma partiamo con calma.
Da reminiscenze scolastiche sappiamo che la parola elettrone deriva dal greco (più precisamente dalla parola ήλεκτρον) col significato di ambra. L'ambra è nota anche per le sue molteplici connessioni con le fenomenologie elettriche. Strofinando un pezzo di ambra con un tessuto di lana, quest'ultimo assumeva una carica elettrica che si manifestava sotto forma di scintilla quando si accostava a determinati oggetti.
Nel 1894 George Johnstone Stoney (15 Febbraio 1826 – 5 Luglio 1911) fu il primo a dare il nome di elettrone a quella che lui riteneva fosse l'unità di carica in elettrochimica. Ma la scoperta della connotazione dell'elettrone intesa come particella subatomica la dobbiamo al fisico britannico Joseph John Thomson (18 Dicembre 1856 - 30 Agosto 1940).
Prima di Thomson, un'evidenza importante dell'esistenza di particelle più piccole degli atomi venne rilevata grazie all'applicazione di campi elettrici sufficientemente intensi su atomi e molecole e allo studio dei loro effetti. Durante tali esperimenti veniva posto un gas all'interno di un tubo nel quale veniva fatto il vuoto e veniva posto tra due placche conduttrici. Tra queste utlime si applicava una differenza di potenziale elevata. Si notava il passaggio di una corrente elettrica attraverso il gas. Grazie ad un circuito collegato esternamente alle due piastre conduttrici si potè misurare tale corrente elettrica.
Tra i vari risultati dedotti dalla misurazione di tale corrente elettrica, uno importante colpì l'attenzione degli studiosi che eseguivano gli esperimenti: la corrente non andava a zero, anche quando il gas veniva asportato completamente dal tubo.
Vi dovevano essere necessariamente dei portatori di carica, ancora ignoti, che dovevano trasportare le cariche elettriche e che procedevano lungo il loro percorso seguendo traiettorie rettilinee che andavano dalla piastra a potenziale negativo (catodo) a quella a potenziale positivo (anodo) producendo un puntino luminoso nel tubo di vetro nelle adiacenze dell'anodo.
Questi portatori di carica furono detti raggi catodici.
Ma tornando a Thomson, fu proprio quest'ultimo a dimostrare che i raggi catodici erano costituiti da un flusso di cariche elettriche negative, gli elettroni per l'appunto. Egli arrivò a tale asserto grazie ad un'esperimento.
L'apparecchiatura usata da Thomson
Essa è schematizzata in figura:
All'interno di un tubo sotto vuoto un fascio di raggi catodici passa dal catodo all'anodo e, successivamente, grazie ad un foro presente all'interno dell'anodo attraverso una coppia di placche caricate in modo tale da procurare un campo elettrico che sia ortogonale alla traiettoria del fascio di raggi catodici.
Questi utlimi vengono deviati, supponiamo magari verso il basso. La deviazione può essere "misurata" grazie allo spostamento del puntino luminoso che si visualizza sullo schermo.
Il motivo che spiega tali effetti è che i raggi catodici sono costituiti da particelle con carica negativa e massa non conosciuta.
Thomson calcolò il rapporto e/me, legando deviazione del fascio e seconda legge di Newton.
Quando gli elettroni attraversano lo spazio tra le placche subiscono l'azione della forza:

dove E è il campo elettrico esistente tra le placche. Ma come detto prima, si verifica anche una deviazione D del fascio, esprimibile con la seconda legge di Newton:

dove t è il tempo necessario a percorrere la distanza l, che è la lunghezza delle placche; t è determinabile grazie alla velocità dell'elettrone, da cui discende che :

Il valore di a è ottenibile mediante la relazione:

Possiamo riscrivere la deviazione D con i nuovi risultati ottenuti:

Quando l'elettrone esce dalla zona in cui vi sono le placche, non subisce alcuna forza e continua il suo moto in linea retta fino allo schermo fluorescente distanziandosi dalla traiettoria non deviata, amplificando di 2L/l la deviazione (L è la distanza centro placca-schermo). Lo scostamento, quando l'elettrone arriva sullo schermo risulta:

Sorge però un problema: di tutte le grandezze riportate sopra, la velocità v degli elettroni è difficile misurarla direttamente. Per questo Thomson pensò di applicare anche un campo magnetico nella stessa regione di residenza delle placche, ottenuto con il passaggio di corrente elettrica attraverso le due bobine. Il campo magnetico ottenuto sarà ortogonale a quello magnetico.
Dosando le forze dei due campi elettrico e magnetico, Thomson fece passare il raggio catodico attraverso il tubo senza deviazioni (il campo magnetico, ricordiamo, deviava gli elettroni in direzione opposta a quella "imposta" dal campo elettrico). Il flusso elettronico è, così facendo, soggetto a due forze uguali ed opposte. Bilanciando le forze si ottenne la velocità degli elettroni. Infatti:

dove il secondo membro di tale bilancio è la forza del campo magnetico H.
Si ha:

Con i risultati ottenuti possiamo riscrivere S come:

da cui:

Il valore ad oggi accertato di tale rapporto è:
e/me= 1.758820088(39) x 1011 C/kg. (CODATA 2010)
Bibliografia
Le espressioni analitiche riportate nell'articolo sono tratte da: "Chimica moderna" di Oxtoby, Gillis, Campion.