Cos'è ElectroYou | Login Iscriviti

ElectroYou - la comunità dei professionisti del mondo elettrico

13
voti

Elettronica e birrerie, parte prima

In questo forum di alcolizzati amanti della birra, mi è venuta l'idea di scrivere qualcosa sull'utilizzo dell'elettronica in birreria. Per la precisione di quello che si misura in birreria. Oggi cominciamo con quello che per il mastro birraio è probabilmente il parametro piú importante: l'ossigeno.

Un

Un'ottima birra (con poco ossigeno)

Indice

Perché misurare l'ossigeno nella birra?

L'ossigeno in birreria viene misurato essenzialmente in tre punti: nelle due fermentazioni e nella cosiddetta filler-line, ovvero al momento di imbottigliare la birra. La terza misura è di gran lunga la piú importante.

Durante la prima fermentazione il mosto produce una grande quantità di anidride carbonica. Le piccole birrerie scaricano questo gas nell'atmosfera, le birrerie industriali che lavorano con batch continui la riciclano per gassare il batch che stanno imbottigliando in quel momento. È importante che questa CO2 usata per l'imbottigliamento sia priva di ossigeno. Man mano che la fermentazione procede, la concentrazione di ossigeno diminuisce. Solitamente il mastro birraio ha come obbiettivo una CO2 con non piú di 5 ppm-volume di O2. L'ossigeno viene misurato qui in fase gassosa, ovvero quanto in una miscela di gas è costituito da ossigeno.

Durante la seconda fermentazione nella birra non deve piú esserci ossigeno, altrimenti si favorirebbero tipi di fermentazione indesiderate, come quella acetica. Qui si parla di misurazione dell'ossigeno disciolto (abbreviato DO), in altre parole quale è la pressione parziale dell'ossigeno in un liquido (qui nel nettare luppoloso). Per comodità però la misurazione viene praticamente sempre convertita poi in un valore di concentrazione volume/volume.

Prima dell'imbottigliamento viene verificata ancora una volta l'assenza di ossigeno nella birra. La maggiorparte delle nostre birrerie lavora infatti con lieviti lager, quindi la birra è a circa 5 °C durante tutto il processo. Una volta imbottigliata la presenza d'ossigeno a temperatura ambiente favorirebbe ogni possibile tipo di altra fermentazione e ridurrebbe la conservabilità del prodotto. In questa fase il mastro birraio cerca valori sotto ai 5 ppb (parts per billion, parti per miliardo!). I Giapponesi sono particolarmenti difficili: Asahi punta a concentrazioni sotto al ppb.

Le tecniche di misura

Facciamola breve: sono due. Amperometrica e ottica.

I sensori amperometrici

Dal nome del loro inventore, tra gli addetti ai lavori sono spesso chiamati sonde Clark. Il principio di funzionamento è elettrochimico e non ve lo riporto, non perché sono pigro e mi schifa scrivere le formule in LaTeX, ma non sono un chimico e non saprei spiegarvelo meglio di quanto non possiate capire da soli leggendo su Wikipedia.

Ho provato a fare un disegnino, ma diciamocelo... anche questo lo vedete meglio su Wikipedia:

La costruzione è relativamente semplice. Ci sono i due elettrodi (anodo di argento e catodo di platino) immersi nell'elettrolita (soluzione acquosa di KCl). L'elettrolita è separato dal mezzo di cui si vuole misurare la concentrazione tramite una membrana permeabile all'ossigeno. In ambito commerciale si usano fogli di Teflon molto sottili (attorno ai 20-30 micrometri).

Gli elettrodi vanno polarizzati con una tensione di circa 700 mV. La corrente che scorre è direttamente proporzionale alla pressione parziale di ossigeno nell'elettrolita. Questo lo rende molto semplice da usare: si calibra il sensore misurando la corrente che scorre quando questo è in aria e si tira una retta che passa per questo punto e per l'origine.

L'intensità della corrente è proporzionale alla superficie degli elettrodi. Di solito si dimensiona l'anodo abbondantemente, perché questo si trasforma con il tempo in cloruro di argento e quindi è vantaggioso avere materiale di riserva. Per determinare la corrente si modifica la superficie del catodo. Qui entra in gioco il campo di applicazione dei sensori. Per sensori che rilevano concentrazioni molto basse, si sceglie una superficie piú ampia, per sensori che lavorano vicini alla saturazione (si definisce saturazione la percentuale di ossigeno nell'aria, quindi 100 % di saturazione equivalgono a circa 21 % in volume)... dicevo, per i sensori che lavorano vicini alla saturazione la superficie è molto minore.

Sensori commerciali hanno tradizionalmente una corrente di saturazione di 65 nA o 5000 nA, a dipendenza del campo di impiego. Sono correnti molto basse e la loro gestione non è priva di problemi. Perché non si aumenta la superficie fino ad ottenere una sostanziosa corrente di facile misurazione? Il motivo è la membrana. La sua permeabilità è limitata. Ci vuole del tempo perché l'ossigeno diffonda dal medio all'elettrolita (dove viene consumato). Se cerco di assorbire una corrente maggiore a quella data dall'ossigeno che riesce a passare attraverso la membrana nell'unità di tempo, misuro molto semplicemente la permeabilità e non la concentrazione.

Hanno il brutto vizio di driftare e vanno quindi calibrati regolarmente. In compenso costano poco e sono eterni se si fa un po' di manutenzione (e si sostituisce la membrana regolarmente).

I sensori commerciali moderni integrano l'elettronica nel sensore e generano la tensione di polarizzazione a partire da, per esempio, 24 V. La comunicazione con l'esterno avviene in digitale (di solito RS-485) e contiene non la corrente (o perlomeno non solo) ma direttamente il valore di ossigeno compensanto in base alla temperatura e alla calibrazione memorizzata nel sensore.

I sensori ottici

Da ormai una decina di anni circa, sono disponibili sensori per l'ossigeno disciolto ottici. Sensori per la fase gassosa, che io sappia, non ce ne sono ancora (quelli per DO si possono usare anche in gas, ma la performance è pessima). Il principio di funzionamento è quello del fluorescence quenching (non so se c'è una traduzione in italiano).

La parte sensibile del sensore non è piú un sistema di elettrolita ed elettrodi, ma un cosiddetto fluoroforo. Nella fattispecie, si usa una meraviglia dall'altisonante nome di Meso-Tetra-Pentafluorofenil-Porfirina di platino. La caratteristica di questa sostanza è che quando viene eccitata con luce verde o blu, emette una fluorescenza rossa. Il meccanismo è classico: i fotoni eccitano gli elettroni su orbitali piú alti. Da qui ricadono emettendo fotoni. Se però vicino al fluoroforo si trova dell'ossigeno, gli elettroni preferiscono rilassarsi trasmettendo energia cinetica all'ossigeno e non avviene quindi emissione di fluorescenza. È quello che si definisce appunto fluorescence quenching. La relazione tra la pressione parziale di inibitore e fluorescenza emessa è definita dall'equazione di Stern-Volmer. È assolutamente inutile che la riporti qui, ma se vi interessa, con google trovate tutto quello che volete.

Misurare l'intensità della fluorescenza non è una cosa evidente. Ci sono parecchi fattori che la influenzano, come per esempio la temperatura. Inoltre il fluoroforo ha la pessima caratteristica di invecchiare: a dipendenza della temperatura, della concentrazione di ossigeno e dello stato (eccitato o meno) l'intensità diminuisce nel tempo. Si ricorre quindi ad uno stratagemma.

Il sistema foto-chimico è equivalente ad un passa-basso. Si modula la luce di eccitazione con la frequenza di taglio del filtro. In questo punto, una variazione nella pressione parziale non influenza solo l'ampiezza ma, come in un filtro, anche la fase del segnale in uscita, che nel nostro caso è la luce rossa emessa.

Lo svantaggio è che anche la fase cambia (di parecchio con la temperatura). Inoltre per ottenere le risoluzioni che il nostro mastro birraio vuole avere, la fase va rilevata con una ripetibilità di almeno 0.01°. Sensori di questo tipo, dietro al front-end ottico/analogico hanno un'elaborazione del segnale assai complicata. Questo è da un lato uno svantaggio, dall'altro permette di compensare parecchi fenomeni e arrivare ad avere intervalli di calibrazione di oltre 2 anni (con il sensore in funzione 24 ore su 24).

Avrete intuito che lo svantaggio è il prezzo (circa 3-5 volte quello di un sensore amperometrico).

Qui vedete l'elemento sensibile che viene avvitato in testa al sensore e sostituito quando è esaurito:

L

L'elemento sensibile di un sensore ottico per ossigeno

A sinistra la parte esterna, a contatto con la birra. La parte scura è la membrana di teflon che permette all'ossigeno di diffondere verso il fluoroforo. A destra si vede la placchetta di vetro sulla quale è applicato il fluoroforo (bianco-rosa). Da questo lato, il sensore lo eccita e raccoglie poi la fluorescenza.

Fai da te

Nello stile del forum, è naturalmente interessante considerare cosa si potrebbe pasticciare ;-)

Iniziamo con la cattiva notizia. Il sensore ottico è roba per smanettoni ultra-avanzati con tempo e soldi da buttar via. Il fluoroforo costa 700 dollaro al grammo. Anche comprando il pezzo di ricambio finito da un produttore commerciale si spende qualche centinaio di euro. Inoltre la fluorescenza avviene contemporaneamente all'eccitazione, ma ha un'intensità tra 5 e 6 ordini di grandezza minori. Servono ottimi filtri ottici per evitare che l'eccitazione arrivi al fotodiodo.

Il sensore amperometrico invece si potrebbe costruire, basta comprare il materiale da un orafo. Il cloruro di potassio forse lo si trova in farmacia. La membrana può essere teflon oppure un sottile strato di silicone.

Per calibrare l'aria è un ottimo standard. Il secondo punto è conveniente metterlo a zero. Nel laboratorio delle birrerie si calibra con azoto purissimo (5.0 o 6.0). Per uso casalingo va benissimo l'aria compressa (che non è aria compressa ma una sostanza organica) in bomboletta spray.

Non escludo, quando avrò un po' piú di tempo, di provare a pasticciare un po'... poi vi racconto.

Alla prossima puntata, con il prossimo parametro di misura...

0

Commenti e note

Inserisci un commento

Inserisci un commento

Per inserire commenti è necessario iscriversi ad ElectroYou. Se sei già iscritto, effettua il login.