................................................. novembre 2008 .......................
Ho appena concluso la lezione di scacchi.
I bambini si preparano per l’uscita con la solita turbolenza controllata dalla maestra.
E’ l’ultima ora del pomeriggio del rientro.
Sto chiudendo la borsa dove ho infilato la cartella con notizie, regole del gioco, problemi.
Sto pensando che ad ogni mia domanda quasi tutti alzavano la mano, addirittura prima che la finissi:
”Io, io, io professore!”
Mi sorprende la loro frenesia di mettersi in mostra, anche perché poi, quasi tutti, sbagliano.
Ma alzano le spalle e ridono. Con una piccola smorfia, stracciano il biglietto che non ha vinto: sono stati sfortunati, riproveranno alla prossima domanda, pescando nella testa la prima risposta che verrà.
Il pensiero corre al mio lontano passato di bambino.
Credo di non aver mai alzato volontariamente la mano per rispondere; senz’altro mai con la velocità e la spensieratezza di questi bambini. Una generazione diversa, forse. Ma io ero anche un bambino particolare. Incapace di espormi volontariamente, di sopportare gli sguardi giudicanti. Mi annientavano. Mi girava la testa. Mi sentivo frastornato, ebete. No, la mano non l’alzavo, nemmeno se credevo di sapere!
Loro invece alzano la mano, quasi tutti, con tempi di reazione rapidissimi. Qualcuno a volte indovina. A chi risponde senza tanta logica, glielo faccio notare con un tono scherzoso. Allora alza le spalle e ride; si scrolla di dosso la figuraccia in pochi secondi. Per me era terrificante solo il pensiero di sfiorarla.
Ma non volevo parlare di me bambino; è che la memoria scivola nel tempo scomparso. Capita nell’età della pensione.
Dicevo: sto chiudendo la borsa.
I miei occhi sfiorano il bordo anteriore della cattedra.
Ed è appena al di là che spunta il visetto di una bimba che non avevo notato durante la lezione.
Sicuramente non ha mai alzato la mano, ed ora non salta e non schiamazza come gli altri.
Aspetta, le manine appoggiate al bordo. Contrae e distende le dita. Attende, paziente e fiduciosa, che il mio sguardo si posi sul suo.
Incontro allora i suoi occhi timidi ma felici, lievi e profondi come il suo sorriso.
“Professore” mi dice abbassando gli occhi che il sorriso non abbandona.
“Sì” dico, “devi chiedermi qualcosa?”
Pensavo ad una domanda sugli scacchi che la timidezza le aveva impedito di infilare tra l’esuberanza dei compagni.
“Sì, professore” dice la bambina con leggerezza.
Ed il sorriso che si diffonde nelle guance, negli occhi, raggiungendo le piccole mani sulla cattedra, mi appare quasi extraterreno.
“Mi saluta sua moglie?”
Me lo chiede come se potessi anche risponderle di no: è sorprendente questo saluto in forma di domanda!
“Ma certo,” le dico. “Certo. Come ti chiami?”
“Sonia”
Lo racconto subito a Giovanna.
Eh, si’, mi dice:
“Sonia, la mia bambina. Tanto buona e tanto dolce. Ma fatica a capire le cose di scuola. Però hai visto che sorriso?”
La lezione successiva guardo dov’è Sonia.
E’ tra gli altri bambini. Li osserva, ed ogni tanto congiunge le manine diffondendo il suo sorriso.
Chiedo agli altri di intervenire per proporre una mossa di scacchi nella posizione sulla scacchiera murale.
Tutti si impegnano per inventare una risposta.
Sonia no.
Li guarda pensare, e sorride.
Come dire: “Ma guarda che fanno, ma come sono bravi loro, cosa sanno inventare! “
E batte le mani ad ogni loro risposta. Qualunque essa sia.
Il suo sorriso è magnetico e le risposte degli altri bambini diventano, per me, un coro che accompagna il muto canto solista di quel sorriso.
“Stavolta voglio che sia Sonia ad indicare la mossa”, dico per coinvolgerla nel gioco.
L’agitazione dei compagni si ferma. Meravigliati per l’inaspettata richiesta, tutti volgono gli occhi a Sonia, che per un attimo sospende di battere le mani. Attenua il sorriso, si guarda intorno, percorrendo gli sguardi dei compagni preoccupati.
Essi sanno che la risposta di Sonia, se ci fosse, non sarebbe corretta; come la loro sì, ma in un modo diverso.
La maestra li invita a suggerire a Sonia una risposta.
E qui si apre una gara: tutti le suggeriscono qualcosa e lei torna felice a battere le mani, a sorridere.
Quando Oleg le avvicina il viso all’orecchio coprendosi la bocca con la mano, Sonia mi comunica, scandendo le parole:
“Don-na ci quat-tro, scac-co!”
Tutti applaudono.
Sonia guarda me che le dico brava, guarda tutti i suoi amici, batte le mani con più forza e ad una frequenza maggiore.
Non conosce bene il senso delle parole che Oleg le ha suggerito, ma è al culmine della felicità per il mio "brava" e per gli applausi che riceve.
Ed il suo sorriso si espande nell'aula ammorbidendo la rumorosa allegria dei compagni.
Un'onda elettromagnetica nell’etere, dove resterà per sempre.
Libro
il racconto è inserito anche in questo libro cartaceo