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Premessa
L’acustica musicale si trova a cavallo tra fisica acustica e pratica musicale, due temi a cui sono mi sono sempre interessato. Ho pensato di offrire un excursus qualitativo veloce ma rigoroso, scegliendo gli aspetti che ritengo di base per i quali ho utilizzato anche alcune parti di un lavoro da me fatto qualche anno fa.
Onde e loro propagazione
In un sito dell’Università di Modena e Reggio si legge: “l'onda è una perturbazione che si propaga nello spazio e che può trasportare energia da un punto all'altro. Tale perturbazione è costituita dalla variazione di qualunque grandezza fisica (es. variazione di pressione, temperatura, intensità del campo elettrico, posizione, ecc..).” In questa variazione, che spesso è periodica o quasi-periodica, l’energia si trasforma continuamente da potenziale in cinetica e viceversa, cosa che potrebbe continuare per un tempo infinito se non intervenissero gli attriti a “degradare” l’energia trasformandola in calore.
Un'onda acustica è un movimento meccanico periodico o al limite impulsivo che si propaga attraverso un mezzo fisico. Nell’aria, in particolare, la perturbazione consiste in un susseguirsi di compressioni e rarefazioni, ossia in un’oscillazione della pressione rispetto al valore della pressione atmosferica in ogni punto interessato dall’onda. Nello spazio atmosferico libero, la propagazione acustica avviene per onde tridimensionali; si può pensare a una serie di sfere concentriche che hanno centro nella sorgente sonora (supposta puntiforme) e raggio che aumenta continuamente sia nel tempo che nello spazio. Se per semplificare pensiamo a onde acustiche sinusoidali si possono immaginare sfere “rappresentative” poste (per esempio) su un valore massimo della pressione (sommità della sinusoide). Queste sfere si chiamano “fronti d’onda” e in una certa porzione di spazio la sfera si può approssimare con un piano. Il valore della pressione dell’aria in ogni punto considerato viene allora descritto da una funzione d’onda a due variabili, tempo (scalare) e spazio (vettoriale). Il tempo che intercorre tra due minimi o due massimi consecutivi di pressione si chiama “periodo” e si indica generalmente con T. Lo spazio che intercorre tra due minimi o due massimi di pressione si chiama “lunghezza d’onda” e si indica talvolta con L. La velocità di propagazione su un asse perpendicolare al fronte d’onda è c = L/T oppure c = LF se F=1/T è la frequenza. La velocità di propagazione nell’aria è circa 340 m/s mentre il campo nominale di frequenze udibili è compreso tra 20 e 20.000 Hz. Di conseguenza la lunghezza d’onda varia tra 17 metri e 1,7 cm. Passando da un mezzo a un altro cambia la velocità di propagazione e, poichè la frequenza rimane la stessa (se il mezzo è lineare), è la lunghezza d’onda che varia di conseguenza; non solo, cambia anche la direzione della propagazione e questo fenomeno si chiama “rifrazione”. Passando da un mezzo a un altro può accadere che tutta o parte dell’energia venga riflessa. Inoltre, durante la propagazione una parte dell’energia viene “assorbita”, cioè trasformata in calore o, intenzionalmente, in altre forme di energia.
Percezione acustica
L’energia meccanica dovuta alla variazione oscillatoria della pressione, irradiandosi dalla “sorgente” (o “trasmettitore”) in aria, investe i corpi che trova sul suo cammino: se giunge a un orecchio, viene da questo trasformata in percezione acustica: l’orecchio è il nostro “ricevitore”. L’udito ha caratteristiche soggettive, ma le differenze tra un soggetto e l’altro, salvo i casi patologici, sono complessivamente piuttosto contenute e non creano difficoltà nel riconoscimento dei fenomeni acustici della natura, del linguaggio verbale e in particolare nella diffusione e fruizione della musica.
Dato che la sensibilità dell’orecchio varia in modo logaritmico, sia in intensità che in frequenza, l’intensità “fisica” si misura in decibel, con un range di valori spaventoso: almeno 120 DB. Ma la corrispondenza tra sensazione di intensità sonora e intensità fisica non è molto semplice. Il decibel da solo non basta a descrivere il comportamento del nostro udito perchè la sensibilità varia anche in funzione della frequenza: per tenerne conto è stata introdotta un’altra unità di misura, il “phon”, di derivazione statistica. Alla frequenza di 1.000 Hz, decibel e phon coincidono; al variare della frequenza le due unità assumono valori riportati nelle curve di Fletcher-Munson.
Nella percezione acustica vengono distinti suoni e rumori: la differenza consiste nel fatto che le onde dei suoni, per
quanto frastagliate, mostrano rispetto ai rumori, caratteristiche di regolarità temporale; ciò porta il nostro sistema
percettivo a individuare una “frequenza fondamentale”, o “fondamentale” tout-court, a cui si associa una sensazione di
“altezza”. Suoni bassi/alti hanno fondamentale di bassa/alta frequenza.
Sorgenti sonore e spettri
Le sorgenti sonore sono le più varie e molte di esse fanno parte dell’esperienza di ciascuno, da quelle vocali a quelle che generano rumori. Sono oggetti che, per le loro caratteristiche fisiche, riescono in alcune circostanze a trasferire una certa quantità di energia all’aria circostante sotto forma di vibrazioni.
Poi ci sono gli strumenti musicali, nati proprio per produrre suoni in senso propriamente detto, o anche particolari rumori, destinati al fare musica. Nel caso della voce e degli strumenti a fiato, la pressione dell’aria emessa dai polmoni (o da un mantice, nell’organo a canne) mette in vibrazione le corde vocali, un’ancia o direttamente l’aria contenuta in uno speciale tubo di legno o di metallo.
In altri strumenti l’energia viene fornita dalle mani a una corda, o a un altro corpo (una membrana, una barra, una piastra, …) adatto a oscillare. L’energia viene trasmessa per contatto a una “cassa armonica”, e da questa fornita all’aria circostante, attraverso la quale si propaga e dà luogo al suono. Il compito della cassa (o tavola, in molti casi) è quello di adattare l’impedenza acustica del corpo vibrante all’ambiente circostante. Volendo dare una spiegazione qualitativa bisogna considerare che il corpo oscillante non riesce da solo a trasferire in modo efficiente l’energia oscillatoria all’aria che lo circonda perchè ha una superficie insufficiente: le vibrazioni vengono allora trasferite tramite un “ponticello” alla tavola armonica che, avendo una superficie adeguata, riesce a muovere una quantità di aria molto maggiore. Naturalmente sia il ponticello che la tavola armonica consumano una parte dell’energia, che in uno strumento “buono” deve essere minima.
Per generare rumori, invece, tutti i mezzi sono buoni: qualsiasi urto tra corpi, qualsiasi sfregamento, esplosione, etc. dà luogo a una perturbazione dell’aria circostante, perturbazione che si propaga spontaneamente. Ma anche qui esistono vari strumenti musicali, come i tamburi e i piatti.
L’acustica, come tutte le parti della fisica che riguardano fenomeni ondulatori, si avvale di strumenti di analisi matematica per una descrizione espressiva e utile alle misure. Quello più diffuso e meglio conosciuto è l’analisi di Fourier, che porta alla rappresentazione tramite uno “spettro di frequenza”. Un suono tipico presenta uno spettro “a righe”, in cui cioè le frequenze delle componenti sono tutte isolate, la maggior parte multiple intere della frequenza fondamentale.
E’ da rilevare che lo spettro a righe è una rappresentazione approssimativa della realtà sonora, perché una forma d’onda periodica dovrebbe durare un tempo infinito per generare solo righe spettrali. Il rumore, essendo irregolare, dà luogo tipicamente a spettri continui. In molti casi l’approssimazione dello spettro, ottenuta con un tempo di osservazione adeguatamente lungo, è ritenuta sufficiente, specialmente quando si fanno misure che riguardano l’energia acustica totale, suddivisa per bande di frequenza. Il cosiddetto “dominio della frequenza” connesso alla trasformata di Fourier è un dominio del tutto “statico”, ma consente di evidenziare le regolarità e distribuzione energetica del dominio temporale. In vari campi, e specialmente nel campo musicale, in cui i fenomeni ondulatori hanno caratteristiche variabili nel tempo, si rivela spesso utile l’uso di un dominio intermedio tempo-frequenza che li comprende entrambi in proporzioni predeterminate: è quanto corrisponde all’analisi “wavelet”, fatta con “ondine” che invece di durare un tempo infinito come le sinusoidi, durano un tempo finito, parametrizzabile.
Il Suono
Le onde del suono musicale sono contraddistinte da una forma piuttosto regolare; la scomposizione spettrale di un’onda
sonora ci dice che la sinusoide componente a frequenza fondamentale (la stessa frequenza del profilo) ha, tra tutte le
componenti, la frequenza più bassa e (spesso ma non sempre) l’energia maggiore: questo secondo aspetto potrebbe essere il motivo per il quale l’apparato percettivo la “sceglie” per qualificare l’altezza del suono, cosa però vera solo in parte, come vedremo. Non è nemmeno vero del tutto che il suono è fatto di onde perfettamente periodiche; però, all’interno della durata di un suono, una periodicità riconoscibile e ben individuabile indubbiamente c’è e ha senso parlare in termini di sole “componenti discrete armoniche” di un’onda, ossia componenti sinusoidali la cui frequenza è multipla intera della fondamentale, detta anche “prima armonica”. Le altre componenti sono dette “parziali armoniche” e svolgono un ruolo di particolare rilievo in tutta la musica. Esistono anche le parziali non armoniche (multipli non interi), per esempio nelle campane e anche nel pianoforte. Le parziali armoniche possono essere molte, ma si mantengono ben distinte, “numerabili”.
Per esempio se in un’onda sonora la frequenza della fondamentale è 220 Hz (oscillazioni al secondo), che corrisponde alla nota LA posta subito sotto al DO centrale nella tastiera dei pianoforte, la sua seconda armonica è 440 Hz, la terza 660 Hz, la quarta 880 Hz … la novantesima è 19.800 Hz, al limite dell’udibile, quindi le successive armoniche non riguardano più la percezione acustica. Inoltre, dopo le prime otto o nove, l’ampiezza (o l’energia, che ne è il quadrato) di ciascuna armonica in genere va diminuendo così rapidamente da diventare quasi sempre trascurabile per la percezione.
La “distribuzione” o, si potrebbe dire, la “configurazione” delle intensità relative delle armoniche (relative, cioè l’una rispetto alle altre) è ciò che determina in prima approssimazione la percezione del “timbro”, un carattere qualitativo per il quale distinguiamo una voce da un’altra o uno strumento musicale da un altro a parità di nota emessa. In generale la presenza di armoniche “pari” più intense, ossia di frequenza doppia, quadrupla, etc. della fondamentale, rende il suono più corposo, mentre la loro scarsità lo rende più “nasale”. Quando poi prevalgono le armoniche a frequenza alta il suono risulta più “brillante” Se un suono viene molto amplificato, anche armoniche non percepibili possono diventarlo, e questo produce un cambiamento del timbro originale.
Abbiamo parlato di alcune caratteristiche spettrali del suono musicale tradizionale, collegate a un concetto di regolarità, corrispondente alla periodicità. Ma la periodicità è un carattere che rimane costante solo nella maggior parte dell’intervallo di durata del suono, non in tutto. Infatti un suono musicale non inizia improvvisamente: si distingue una fase detta “attacco” in cui il suono cresce di intensità, seguita da una fase centrale in cui l’intensità è costante oppure declinante – come nel pianoforte - finché si entra nella fase di chiusura, dove il suono rapidamente si estingue. Le fasi di attacco e di chiusura sono importantissime per il timbro; in queste fasi il suono non è proprio periodico, anzi è piuttosto irregolare e contiene del rumore sovrapposto. Gli esecutori lo sanno benissimo e riescono a dominare queste due fasi con grande abilità, nella misura consentita dal loro strumento. Negli archi e nei fiati e in molti strumenti a corda questa possibilità esiste; in quelli a tastiera generalmente no. Molti pianisti e didatti anche famosi curiosamente sono convinti di poter variare il timbro del pianoforte secondo il modo in cui il dito preme il tasto, se dall’alto o da vicino o in altri modi fantasiosi: peccato che la meccanica del pianoforte, come quella del clavicembalo e, a maggior ragione dell’organo, non si accorga del modo in cui il dito si muove! Per essa conta solo la velocità del tasto, trasmessa al martelletto. Diverso è il discorso per il clavicordo, uno strumento a tastiera molto amato da J.S. Bach, dove il tasto abbassandosi provoca l’elevazione di un perno che solleva la coda dividendola in due parti e dando vita così a due suoni contemporaneamente: per non complicare le cose, uno dei due suoni viene smorzato da un nastro di feltro inframmezzato tra le corde. Poiché quando il tasto è abbassato tiene tesa la corda, variando la pressione del dito si varia anche la tensione e quindi la frequenza e nasce un effetto di “vibrato”.
In termini di spettro di frequenza, la fase di attacco e, spesso in misura minore, quella di fine suono (smorzamento)
introduce frequenze in più di quelle presenti nel suono “a regime” (come prevede del resto la trasformata di Fourier); tali frequenze sono parte fondamentale della caratterizzazione del timbro. Per esempio, se si registra una successione di note al pianoforte e poi, per via elettronica, si tolgono le fasi di attacco, il timbro non è più riconoscibile come quello del pianoforte e sembra quasi di ascoltare un organo elettronico.
Suoni musicali
La musica utilizza sia suoni che rumori; i suoni musicali vengono generati in modo intenzionale da due tipi di sorgente: la voce e gli strumenti musicali. I suoni musicali “tradizionali” (le “note”) sono caratterizzati in primo luogo dall’altezza, o meglio dai rapporti di altezza dei suoni scelti e disposti su una “scala”. Il rapporto tra le altezze si traduce fisicamente nel rapporto tra le frequenze delle fondamentali, in prima istanza derivato dai multipli interi di una frequenza di partenza Fp. Poniamo che Fp sia la fondamentale della nota DO più bassa di tutte (detta DO1 -> 32,70 Hz). Il rapporto più semplice è 2:1 e si chiama “ottava” l’intervallo di frequenza Fp – 2Fp; il nome deriva dal fatto che all’interno dall’intervallo suddetto si trovano le altre 6 note RE, MI, FA, SOL, LA, SI, per cui 2Fp corrisponde all’ottava nota, il DO dell’ottava superiore (DO2 -> 65,41 Hz). Le fondamentali delle rimanenti 6 note sono state ottenute storicamente moltiplicando Fp per frazioni di interi m/n (m>=n; 1<= m/n<=2). La frazione con numeri più piccoli è 3/2 e moltiplicata per Fp dà la quinta nota (SOL) delle 7 (da cui il cosiddetto “intervallo di quinta”). Moltiplicando poi per 2 ogni fondamentale della prima ottava si ottengono le fondamentali delle stesse note nella seconda ottava 2Fp – 4Fp, e così via per 7 ottave. La nota più alta del pianoforte è il DO8 (fondamentale = 32,70X2^7 = 4186,00 Hz), mentre gli altri strumenti si fermano tutti prima. Note più alte non sarebbero utilizzabili dalla musica perché, anche se l’orecchio sente fino a 16 – 20 KHz, dopo i 4 KHz non è in più grado di discriminare le altezze. In realtà la frequenza di riferimento è quella del LA4 = 440 Hz ormai affermata come standard internazionale, dalla quale si derivano tutte le altre. Inoltre le note non sono solo 7 ma sono 12. Questo deriva dal fatto che la percezione dell’altezza non è lineare ma è logaritmica, quindi una distribuzione “uniforme” di altezze crescenti richiederebbe che il rapporto (e non, appunto, la differenza) tra la fondamentale di una nota e della successiva fosse costante, cosa che non si aveva con le antiche 7 note. Infatti il rapporto tra MI e FA risultava circa la metà di quello tra le altre note consecutive; furono aggiunte allora varie note “alterate”, (che nel tempo sono rimaste in 5, i tasti neri del pianoforte). In questo modo il rapporto di frequenza tra tutte le note consecutive risultava circa costante.
Fin dal Rinascimento i teorici della musica si sono dovuti confrontare con questo “circa”, legato a una difficoltà
matematica che è stata ben chiarita dal fiammingo Simon Stevin verso l’inizio del ‘600 (ma già nota nel IV secolo A.C.). Si tratta brevemente di questo. La moltiplicazione per 3/2 di una fondamentale corrisponde a trovare la terza armonica e a “riportarla” entro l’ottava; le note musicali sono state generate così, perché l’orecchio percepisce come “consonanti” i suoni le cui fondamentali sono in rapporto di numeri interi piccoli, legati quindi alle armoniche (non a caso così chiamate).
Ad esempio per ottenere la nota FA si moltiplica la fondamentale del DO per 4/3 mentre il MI si ottiene con 5/4. Ma più
gli interi diventano più grandi, meno i suoni sono consonanti. Partendo dal DO1, si è visto che moltiplicando per 3/2 si ottiene SOL1; moltiplicando questo per 3/2 si ottiene RE2 e così via fino a DO8, in 12 salti. Ma (3/2)12 non è uguale a 28 come sarebbe desiderabile! Di conseguenza, la generazione delle note attraverso i numeri interi fa perdere l’uniformità del rapporto tra note consecutive. Se non la si vuole perdere, occorre rinunciare alla consonanza perfetta tra alcune note, almeno in parte, cioè giungere a un compromesso. Nel corso dei secoli sono stati escogitati vari compromessi, chiamati “temperamenti”, finché, anche per l’autorità di J.S. Bach con la sua raccolta “Il Clavicembalo ben temperato” (mal tradotto dal tedesco “Das wohltemperierte Clavier”, eseguibile su qualsiasi strumento a tastiera e non solo sul clavicembalo) nel ‘700 ha cominciato a prevalere il cosiddetto “temperamento equabile” su 12 note, tuttora in uso. Esso non è altro che la suddivisione logaritmica uniforme dell’intervallo di ottava: ognuna delle 12 note viene ottenuta da Fp moltiplicandola per 2(n/12), con n intero. Così facendo le note sono leggermente “stonate” (ormai ci siamo abituati e non ce ne rendiamo conto) ma qualsiasi melodia può essere suonata a partire da qualsiasi nota, e questo musicalmente ha implicazioni molto importanti.
La fondamentale assente
Un altro aspetto notevole del nostro sistema percettivo è che esso è in grado di generare la percezione dell’altezza di un suono anche se la fondamentale è assente, servendosi delle sole parziali. Siamo infatti capaci di riconoscere alcune note basse nella musica riprodotta da altoparlanti troppo piccoli per emetterle con efficienza. Siamo anche capaci di
riconoscere che la nota più bassa di un pianoforte è di altezza metà della nota che ha lo stesso nome e si trova a distanza di un’ottava: le due frequenze fondamentali sono rispettivamente 27,5 Hz e 55 Hz, ma anche se vengono emesse da un pianoforte gran coda, la loro intensità è troppo bassa per poter essere udita. Ciò accade sia perché l’energia delle corde a quelle frequenze giunge al nostro orecchio assai attenuata (per motivi legati a come lo strumento è costruito) sia perché l’orecchio ha una ridotta sensibilità alle basse frequenze. Sotto i 100 Hz, poi, diminuisce drasticamente anche la nostra capacità di individuare con precisione l’altezza dei suoni puri: se i suoni prodotti dagli strumenti musicali non contenessero le parziali, non riusciremmo a individuare in essi un’altezza definita. In effetti l’unico strumento musicale meccanico in grado di generare suoni bassi con potenza sufficiente da poter essere udita è l’organo a canne: ma se insieme alla canna che emette il suono bassissimo quasi puro non si fanno suonare contemporaneamente anche canne che abbiano la loro frequenza fondamentale doppia, tripla, quadrupla, ecc. di quella bassissima e che facciano le veci degli armonici, il suono risulta simile a un sordo brontolio indistinguibile.
Esperimenti di psicoacustica dimostrano che se all’orecchio giungono contemporaneamente due onde, una di 320 Hz e l’
altra di 560 Hz, il nostro cervello genera la percezione di un’onda a frequenza 80 Hz, che è il Massimo Comun Divisore tra le altre due; detto in modo diverso, le altre due frequenze di 320 e 560 sono multipli interi di 80 (si dice anche che sono in “rapporto armonico”), che quindi appare come “la fondamentale” o prima armonica, mentre esse svolgono il ruolo rispettivamente di quarta e di settima armonica. Se le due frequenze fossero leggermente diverse, non più in rapporto armonico quindi, il cervello cercherebbe entro certi limiti di costruire un’approssimazione del loro Massimo Comun Divisore.
C’è anche un altro aspetto da considerare. La percezione dell’intervallo di ottava, per la quale due suoni contemporanei a distanza di ottava possono risultare difficilmente distinguibili, non corrisponde sempre al rapporto 2:1 come ho detto prima. La relazione tra sensazione di altezza (misurata in “mel”, un’unità di misura ricavata con metodi statistici dalla psicoacustica) e logaritmo della frequenza non è lineare, come si è supposto finora. Lo è solo nella parte centrale della gamma udibile delle frequenze, e in più risente anche dell’intensità; guardando le curve che rappresentano quella relazione è evidente come lo scostamento dalla linearità sia tutt’altro che trascurabile. Questo è un problema per gli strumenti “a note fisse”, in particolare per quelli elettronici, che si complicano un po’ se vogliono adeguarsi a questo aspetto. In misura minore, anche la composizione spettrale influenza la sensazione dell’altezza.Non è quindi sempre vero che l’orecchio scelga l’armonica a energia maggiore per rappresentare l’altezza del suono, perché intervengono anche altri meccanismi, per spiegare i quali bisognerebbe capire il funzionamento dell’orecchio. Nè, come abbiamo visto, la percezione dell’altezza è lineare. Ma non è ancora chiaro a cosa ricondurre questi e altri aspetti della percezione acustica. La teoria “tonotopica”, quella attualmente in voga, derivata dagli esperimenti che fecero guadagnare il Nobel a Von Bèkesy nel 1961, non riesce a spiegare alcuni fenomeni cruciali; tra gli altri, oltre a quello detti sopra, non dà conto del contrasto tra la grande selettività e la grande risoluzione temporale dell’orecchio. Per inciso, quest’ultima è di molto superiore (si pensi all’estremo 20 kHz della banda udibile) ai tempi di propagazione degli impulsi elettrici biologici che sono dell’ordine del millisecondo. In effetti non c’è ancora una teoria che spieghi compiutamente il funzionamento dell’orecchio.
Suono e rumore
Quando udiamo il tuono di un temporale, il traffico per strada, un treno che passa, un mobile che viene spostato, noi
pensiamo e diciamo rumore e non suono. Forse non sappiamo dire il perché, ma in quei casi ciò che ascoltiamo è molto
diverso da quando sentiamo le campane o una chitarra e istintivamente siamo portati a dargli un nome differente. Sul
piano fisico il rumore si distingue dal suono per la mancanza di periodicità temporale, o per una periodicità incerta, per cui è difficile o impossibile trovare una “fondamentale”; inoltre le componenti non sono più “numerabili”, ma continue in frequenza. In altre parole, mentre nel suono l’energia è concentrata per la maggior parte solo sulle frequenze “armoniche”, nel rumore l’energia è distribuita su un intervallo di frequenze; se l’ampiezza di ogni singola frequenza è costante, il rumore si chiama “bianco”, per analogia con la luce. Molti dei rumori che udiamo hanno spettri più complicati, composti magari da più di una banda continua. Se tale banda è unica (o prevale nettamente su altre) e non è troppo ampia, il rumore viene detto “colorato”: molti strumenti a percussione possiedono questa caratteristica distintiva, simile a quella di vari rumori generati dall’uomo, da altri animali o presenti in natura. In altri casi la situazione è ancora più complessa: lo spettro non è tutto continuo ma contiene anche delle righe; quando è così, certe volte è ancora possibile individuare una fondamentale, come nei timpani dell’orchestra. Si può allora affermare che, a grandi linee, nel suono l’energia acustica è abbastanza strutturata, ordinata, mentre nel rumore è disordinata (o meno ordinata).
Tuttavia il confine tra suono e rumore è vago, sfumato; la sua definizione “implicita”, ossia riconosciuta dalla maggior parte delle persone, varia nel tempo e da una cultura all’altra. Nel mondo reale spesso lo spettro acustico è in parte continuo e in parte a righe: se la parte preponderante è quella continua si ha rumore; viceversa, se prevalgono le righe (spaziate per multipli interi di una o più fondamentali) si ha suono. Tentare di stabilire la soglia e le proporzioni di questa prevalenza è un’impresa ardua e poco sensata, data la presenza di fattori culturali non misurabili.
Sul piano fisico-energetico il legame tra suono e rumore è abbastanza stretto: si può ottenere il suono “filtrando” a banda stretta il rumore, ossia eliminando dal suo spettro la maggior parte delle frequenze e lasciandone solo alcune isolate, multiple della più bassa (che diventa la fondamentale). Viceversa si può anche generare rumore a partire dal suono, sommando tanti suoni sinusoidali di frequenza diversa e tutti con la stessa ampiezza: si può avere un’idea di questo pensando al rumore prodotto da migliaia di voci che urlano in uno stadio, oppure suonando contemporaneamente molti tasti (un “cluster”) nella zona bassa nel pianoforte.
Sul piano biologico la percezione del rumore è forse più importante di quella del suono perché il rumore è sempre presente nell’ambiente abitato dall’uomo: l’udito si è formato nell’evoluzione proprio per riconoscere e distinguere i rumori ambientali prodotti da oggetti e animali potenzialmente pericolosi, fornendo così informazioni utili alla sopravvivenza. Si può affermare quindi che il nostro sistema percettivo acustico è modellato sul rumore e non sul suono.
L’intensità con cui percepiamo i suoni dipende in qualche modo dalla distribuzione delle frequenze componenti: suoni dal timbro “brillante” contengono molte parziali e vengono percepiti come più forti rispetto a suoni più “cupi”, a parità di potenza acustica emessa. Inoltre se due suoni di pari intensità (fisica) hanno frequenze fondamentali abbastanza “distanti” e li udiamo insieme, la nostra percezione è di intensità doppia, rispetto al suono singolo. Ma se quella “distanza” – che viene misurata con il rapporto (e non la differenza) tra le due frequenze – è “troppo piccola” ossia inferiore alla cosiddetta “banda critica” allora la potenza necessaria per poter percepire un’intensità sonora doppia è molto maggiore; si spiega così la necessità di disporre di orchestre con un numero elevato di strumenti ad arco, che, per contrapporsi a strumenti dal suono molto più potente come gli ottoni, suonano in gruppi numerosi all’unisono. Per altro verso, se ascoltiamo un quartetto d’archi, non abbiamo la sensazione di poco volume di suono, perché i quattro strumenti suonano quasi sempre note sufficientemente “distanti” tra loro. Anche se questo potrebbe essere considerato un caso particolare, la psicoacustica ha stabilito che per ottenere una sensazione di intensità sonora doppia, occorre circa decuplicare l’intensità fisica; questo però vale solo per le frequenze comprese circa tra 1.000 e 2.000 Hz, mentre per le altre la relazione tra intensità fisica e intensità percepita è molto meno semplice, come si è potuto vedere nelle curve isofoniche di Fletcher-Munson.
Per proseguire il discorso dell’acustica musicale bisognerebbe parlare anche della risonanza, dell’acustica ambientale, delle tecniche di registrazione e di riproduzione, della musica elettronica e tecnologia connessa, etc. ma (per ora) mi fermo qui.