... 2012
Da bambino non riuscivo ad immaginare che i vecchi potessero essere stati giovani o addirittura bambini.
Sì, a volte qualcuno mi diceva: “quand'ero piccolo come te...”
“Mah!...”
Ci pensavo un po' e decidevo che doveva essere una delle tante favole che mi raccontavano.
Era un'insensatezza che scombussolava la mia visione del mondo, dove quasi tutto era così da sempre e così per sempre sarebbe rimasto. Che senso avrebbe avuto mia nonna con il viso di una bambina?
Forse a volte pensavo che un mondo probabilmente c'era anche prima di me, ma il mio mondo era come se fosse nato insieme a me. Non riuscivo a farmi una ragione di come tutto potesse essere successo, tanto meno perché (ma non ho fatto molti progressi in questo senso); era meglio lasciar perdere (allora come ora).
Mia nonna l'ho sempre vista vecchia. Ma non era il risultato di una decadenza, né di uno sfacelo o una progressiva punizione fisica imposta ad una presuntuosa giovinezza, come mi capita di pensare a volte ora.
No, mia nonna doveva essere vecchia per potere essere mia nonna.
Io ero un bambino e mia nonna era vecchia perché il mondo era fatto così. Le nonne erano tutte vecchie ed i bambini, tutti bambini. La vita per me era ferma ed eravamo tutti eterni, fissi nelle nostre posizioni. Io facevo certe cose, avevo certe dimensioni, certi interessi. E loro, i vecchi e più in generale gli adulti, altri che completavano i miei.
C'erano fatti che non mi tornavano in ciò che a volte mi dicevano, ma tendevo a pensare che si sbagliassero o si fossero espressi male. La "Ciuzìna” (cioè "la Maria ad Bepe Ciuzin") mi disse che l'uomo grande arrivato non so bene da dove, in licenza dal servizio militare, era suo figlio. Rimasi un po' sconcertato, ma non dissi nulla. Uno così grande non poteva essere suo figlio; i figli che conoscevo erano bambini come me. Solo i bambini potevano avere una mamma.
Credo di non aver mai pensato che mia mamma fosse la figlia di mia nonna. Mia mamma era mia mamma, mia nonna era mia nonna ed io ero il perno attorno a cui entrambe ruotavano.
Ho fatto delle indagini su questo tema. Il sondaggio l'ho condotto su un campione molto rappresentativo: Giovanna. Più o meno, quanto detto sopra, coincide con ciò che lei mi risponde quando le chiedo cosa pensava da bambina di sé e degli altri. Il bambino pensa ad un mondo statico, mi ha confermato Giovanna. Alla mamma è stato assegnato il ruolo di mamma e la corporatura giusta, così al papà e a tutti quelli più grandi. Sui più piccoli non c'è una precisa opinione (anche perché Giovanna era l'ultima di nove fratelli).
Deve essere così, forse. La natura non può spaventare subito il bambino indicandogli il suo destino, rendendolo consapevole del breve arco di tempo in cui consumerà le trasformazioni che definiranno la sua durata, trascurabile nel tempo universale, come un euro per chi ne possiede miliardi.
Che le cose dovessero rimanere sempre com'erano lo testimoniavano i giorni, allora lunghissimi. Il tempo passava, ma molto lentamente. E non per noia. Neppure desideravo scorresse più veloce. Mi sembrava avesse la giusta durata. Al mattino c'erano un sacco di cose da imparare e nel pomeriggio innumerevoli ore per giocare, svariati posti in cui andare, separati da lunghe distanze che pur riuscivo a percorrere. Un anno di scuola era lungo a pensarlo all'inizio ed anche dopo che era trascorso e le vacanze estive lunghissime. E bellissime.
La morte era un evento di cui avevo sentito parlare, una specie di rottura improvvisa di cui rimanevano vittime, sostanzialmente, degli sconosciuti lontani.
Solo in un paio di casi aveva colpito vicino, come quando fermò per sempre Oscar, un saltuario compagno di giochi con il quale non avevo un grande feeling per la verità. Anzi. La gelida ed assoluta scomparsa del movimento dal suo corpo, il mutismo sopraggiunto così invincibile da apparire irreale, mi aveva molto impressionato e sorpreso. Qualcosa cambiò, penso, dentro di me, ma fu tenuto come in riserva per i pensieri futuri che dovevano ancora svilupparsi. Così quell'evento terrificante che modificava radicalmente alcuni esseri umani, rimaneva sostanzialmente al di fuori del mio mondo che, ne ero convinto, era immune da una simile dissimmetria.
Almeno fino al punto più distante in cui riuscivo a proiettare l'immagine della mia vita.
Poi le cose cambiano.
Verrebbe da dire improvvisamente.
Un giorno scopro infatti di essere molto vicino all'età che aveva mia nonna quando sono nato io.
Mi guardo intorno e tutto è cambiato. Faccio la conta di chi c'era una volta e scopro un deserto.
Penso ad una battaglia che ha decimato la mia compagnia di cui rimango praticamente uno dei pochi superstiti.
Intorno c'è dell'altro, questo sì, per fortuna.
Cose e vite che prima non c'erano. Non solo, ma che nemmeno immaginavo ci sarebbero state. E che hanno riempito l'altra cospicua parte della mia vita. Quella di adulto, dove, sì, il tempo era più corto, le giornate finivano prima e a volte non bastavano per metterci tutto dentro.
Progressivamente dunque l'impressione di eternità si è dileguata. Ero cosciente che le cose cambiavano ed a volte desideravo perfino che cambiassero in fretta. Non le cose che mi piacevano. Quelle sgradevoli, quelle obbligate. Quelle che mi avevano tolto la libertà del bambino, facendomi sentire, è vero, più importante, ma con un sottile presentimento, che si sarebbe tramutato in certezza, che non lo sarei stato per sempre.
Poi è finita anche l'importanza di sentirmi guida della nuova piccola pattuglia che si fidava di me.
Solitudine ed inutilità hanno preteso uno spazio maggiore nella testa. Capitava anche prima di sentirne la presenza, ma più da un punto di vista filosofico. Ora diventavano ingombranti fardelli fisici, pesanti ed ostili.
Eppure stranamente quando gli acciacchi (come dice un proverbio: dopo la quarantina a gh'n'è una ogni matina) non mi distraggono, dentro la testa frullano ancora i pensieri leggeri del bambino di cui lo specchio vuole negarmi l'esistenza, con ragioni che non si possono demolire. Capelli ed altro scomparsi. Pieghe verso il basso agli angoli della bocca. Guance che pendolano. L'impercettibile, nel tempo, ma esagerato come risultato finale, spostamento delle distanze tra zone del volto. Modifica delle dimensioni, delle labbra ad esempio ora affilate da sembrare solo i margini di un taglio.
Ma se non ci sono grossi problemi tutti dimenticano le mutazioni subite, grandi ed indesiderate all'esterno, ma invisibili da dentro.
Però è dall'esterno che ti guardano gli altri. Se tu puoi dimenticare i tuoi cambiamenti, non puoi nasconderli agli altri.
So che il bambino che mi vede, mi pensa così da sempre. Inutile spiegargli che anch'io ero come lui, che il tempo ha pensato di modellarmi come mi vede, come uno scultore un po' cattivo ed un po' pazzo. La pensavo anch'io come lui alla sua età. Per lui non ho subito alcuna trasformazione: io sono quello che lui ora vede e lo sono sempre stato.
Non pensa così chi ha la mia età e mi ritrova dopo parecchio tempo.
Lo so perché a me succede così. Cammino, guardo, e d'improvviso vedo uno che una volta aveva la mia età ed ora è invecchiato.
Anzi penso proprio che è un vecchio.
Lo vedo più vecchio di come lo vede un bimbo. Perché io penso alla dinamica che l'ha prodotto e che mi appare così accelerata da essere concepita come una malattia. Questo nuovo vecchio derivato da un ex giovane come me, non è il personaggio di una commedia che si ripete eternamente uguale. Mi chiedo addirittura come sia possibile avere la certezza di un'identità di fronte a una simile diversità.
Per fortuna non mi colpiscono nello stesso modo le trasformazioni in chi mi sta accanto ogni giorno. Le noto ragionando e confrontando, ma non sono drammatiche.
E quando i figli dei quali hai notato con più precisione i cambiamenti, acquistano autonomia e non hanno più bisogno di te, cominci a considerare la loro età. Che tu a quell'età eri così e da un pezzo non eri più bambino. Anzi ti trovi a pensare che ora tuo figlio ha l'età di quando tu eri ormai cosciente della dinamica della vita ed hai cominciato a sentirla agire sul tuo corpo.
E' così che capita di pensare proprio quel che disse un giorno mio cognato Mario, di Adriano, che gli aveva da tempo regalato il primo nipotino, a chi gli chiedeva quanti anni avesse suo figlio:
“El m'à quasi ciapà!”1
Dentro di noi il tempo si ferma pur continuando ad operare all'esterno, nell'hardware diciamo. Ma il software sembra non venirne intaccato. Finché c'è, è quello che è sempre stato. Magari ci sono frammenti sparsi, routines dimenticate, dati superflui. Ma il programma principale, la coscienza, il cartesiano “Cogito ergo sum”, non mostra i segni del tempo. Non c'è niente di fisico che il tempo possa intaccare, ossidare, sgretolare. Così noi siamo, per noi, ciò che la nostra coscienza ci fa sentire: siamo i nostri pensieri. E questi oscillano con facilità verso età finite, lontane, ma che per un attimo t'illudi ancora di avere.
“Eh, ma quello è vecchio” ti trovi a dire parlando di qualcuno che poi scopri avere la tua età. O meno. Sì, hai un bel convincerti che tu appari meno vecchio, per come ti senti dentro, ma non sei tanto sicuro di ciò che vedono gli altri. Anzi ti viene il sospetto, per non dire la certezza, che se tu fossi l'altro penseresti di te quel che tu stai pensando di lui. Il nostro specchio dentro cui ci dimentichiamo di guardare, è sicuramente nei loro pensieri.
Ho riso quella volta che è capitato a mia nonna.
Si parlava di un attore della TV. Da un po' non lo si vedeva per cui ci si chiedeva cosa stesse facendo.
Nonna sentendo il nome e ricordando l'ultimo volto visto, di certo colpita da com'era diventato, dimentica di sé e del suo lungo passato, di tutte le trasformazioni da lei stessa subite e note, ritenendo impossibile che potesse fare ancora qualcosa, pronunciò la frase che ho raccontato tante volte, a pranzo o a cena, nei dieci minuti che si sta insieme e non ci si abbandona ai propri mondi
“E, ma no, inpussìbul, quel lì.. quel lì l'è vecc cm'el cuc!”2
Non potei non sorridere allora e contemporaneamente pensare ad una stranezza che non mi poteva capitare.
“Varda, nona, che quel lì, ch' ad dì tì, al sarà vecc cm'el cuc, ma al ga diès an men che ti”3.
Nonna tacque, per qualche secondo, in un primo tempo incredula.
Poi sorrise come lei faceva, con un po' di timidezza.
Si vedeva che stava pensando:
“Incredibile, è vero, io ho 87 anni ed a vent'anni uno di 77 anni per me era vecchio come il cucco. In fondo non ho detto nulla di sbagliato. Vecchio lo è, ma mi sono dimenticata dei miei anni! Ma tutto sommato questa dimenticanza è una fortuna.”
Poi, alcuni anni dopo cominciò a dimenticare tutto. E qui io no so dire se sia una fortuna. Di sicuro per me fu un'altra pietra gettata contro uno dei vetri che mi proteggeva ancora dalle intemperie della vita.
Ho raccontato questo episodio perché, come ho detto, allora io sorrisi.
Allora probabilmente non intuii subito i pensieri con cui nonna aveva analizzato in silenzio la sua osservazione.
Ora li conosco.
Anch'io sarei arrivato a capire.
Sorrideva sia perché dimenticare quel che si è, è una fortuna, sia perché aveva deciso di non dirmi nulla. Sapeva che non le avrei creduto se mi avesse anticipato il futuro piacere amarognolo della scoperta.
Ora mia nonna avrebbe 127 anni e quando io iniziai a conoscerla, aveva più o meno la mia età di adesso.
Se fosse viva, ma dentro di me lo è comunque sempre, direbbe come Mario, strizzandomi l'occhio
“Et vist ch' a't'me ciapà?"4
Habakkuk" di 18 century icon painter - Iconostasis of Transfiguration church, Kizhi monastery, Karelia, north Russia
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Note
- Mi ha quasi raggiunto
- E, ma no, impossibile: quello lì...quello lì è vecchio come il cucco!
- Guarda nonna che quello lì, che dici tu, sarà anche vecchio come il cucco, ma ha dieci anni meno di te.
- Hai visto che mi hai raggiunto?
Libro
il racconto è inserito anche in questo libro cartaceo