Cerco di dare un seguito a
questo proposito di admin, che solo oggi ho visto, in maniera del tutto casuale peraltro; proprio questa casualità mi ha fatto pensare come ElectroYou sia un mondo pieno di risorse e spunti interessanti, non solo ed esclusivamente tecnici, ed è un peccato che spesso si perdano nei meandri del portale.
Ma forse è anche questo il bello, un po' come quando si va in cantina o in soffitta e si aprono gli scatoloni dei ricordi o delle vecchie fotografie ingiallite, saltano fuori cose che anche la memoria ha messo da parte.
Mi chiedo cosa metteranno i nostri figli negli scatoloni? Le flash memory usb? Non so se sarà altrettanto emozionante aprirli dopo tempo, forse no, forse sarà emozionante inserire la memory nella sua slot ed accedere alle cartelle... sempre che nel frattempo i sistemi hardware non abbiano cambiato il loro standard, in tal caso sarebbe bene mettere nella scatola dei ricordi, oltre le flash memory, anche un dispositivo che ne possa garantire la riproduzione. Ma sto andando fuori tema, non è di questo che volevo parlare.
Come detto, cercherò di proporre un racconto personale e quindi frutto del mio punto di vista, sperando di fare cosa gradita a qualcuno, ma anche no, non per forza qualcuno deve gradirlo.
Breve antefatto
Da piccolino, come molti del resto, sono sempre stato attratto dall'elettricità.
Ricordo bene quei grossi interruttori magnetotermici con i due pulsanti rosso e nero montati a parete, su quello che all'epoca (parliamo solo di una trentina d'anni fa però) non si chiamava ancora "centralino". Li guardavo con un certo timore reverenziale, sapevo infatti che non avrei mai dovuto né potuto toccarli... quando montati. Mio nonno però, teneva in casa una piccola scatola, con dentro uno o due analoghi, non so se perché guasti o per quale altra ragione e purtroppo non posso più chiederglielo.
Di tanto in tanto, andavo alla ricerca di questa scatola, ne estraevo il contenuto e con estrema cura e attenzione lo posizionavo sul tavolo (o sul mio lettino), ricordo bene che l'interruttore aveva un contenitore in plastica da cui poteva essere estratto rendendo accessibili i morsetti.
All'epoca però, mi limitavo ad armare e subito dopo far scattare l'interruttore agendo di volta in volta sui due pulsanti.
Ero incuriosito da quel rumore secco e repentino dovuto all'azionarsi dei leverismi e delle molle interne, così andavo avanti per un bel po', attacca, stacca, attacca, stacca, attacca, stacca.. fino a che puntualmente arrivava mia nonna e mi diceva "Attilio!! lassa stari sti'cuose, un sunnu pì ghiucari! 1"; in realtà non sempre il tono era così perentorio, spesso me lo ripeteva anche in italiano, forzato ma corretto, ma era più forte di me, sconsolato poi, rimettevo tutto a posto.
Gli anni all'industriale, sono costellati di bei ricordi, in realtà però, da adolescente, persi un po' di vista quella passione latente che mi accompagnava fin dalla tenera età, che affiorava per poi rinascondersi in maniera del tutto casuale.
Durante il biennio, che era comune a tutti gli istituti tecnici (ITIS), non avevo una gran coscienza riguardo la scelta migliore per il mio futuro. L'istinto e la curiosità che da sempre mi aveva accompagnato seppure con alti e bassi, mi spingevano a scegliere elettronica e telecomunicazioni o elettrotecnica; di contro, il mio amico del cuore avrebbe scelto informatica, l'istituto dove frequentavo il biennio invece, proponeva per il triennio solo chimica, nelle sue varie specializzazioni.
Questa forse, è l'unica cosa, l'unica scelta della mia vita di cui mi sia veramente pentito e che se potessi tornare indietro avrei cura di non ripetere.
Come detto, a quattordici anni, parlo per me, non avevo una grande idea del mio futuro, avevo una visione molto just in time, così mi lasciai condizionare da eventi estemporanei, che lasciano il tempo che trovano.
Allo stesso tempo, sentivo dire da amici che frequentavano già il terzo anno, che all'ITIS "Alessandro Volta" dove ci si specializzava in elettronica e telecomunicazioni, sito in viale dei picciotti nel quartiere Settecannoli, confinante col forse più conosciuto Brancaccio, dei ragazzi diversamente simpatici, ti chiedevano il pizzo per entrare a scuola, direttamente davanti ai cancelli, oppure ti sequestravano la merenda.
Devo dire che non sentendomi investito di una missione da portare a compimento, l'idea di essere perseguitato per entrare a scuola non mi entusiasmava più di tanto.
Non di meno, per raggiungere quella scuola, dovevo prendere almeno due o tre autobus, il ventotto (ora seicentoventotto) e quello che forse all'epoca veniva siglato come ventuno/trentuno (ma di questo non sono sicuro), ad ogni modo si trattava di circa venti chilometri di percorso urbano ad andare e venti a tornare, abitando all'epoca a Sferracavallo, piccola borgata marinara che si trova sull'asse diametralmente opposto all' ITIS "A.Volta".
L' ITIS "Vittorio Emanuele III" invece, veniva un po' più vicino e ci si poteva specializzare in elettrotecnica, fui tentato fino all'ultimo. Poi invece, mi feci trasportare dagli eventi del momento, da una assurda comodità di trasporto tra casa e scuola, da un amore platonico verso una ragazza del quarto anno, da un paio di compagni del biennio con cui avevo legato ma che ora accosto più al gatto e alla volpe del libro di Collodi, che avrebbero scelto chimica industriale. E così rimasi all'ITIS "Ettore Majorana" di San Lorenzo, dove insieme a chimica industriale, ci si specializzava anche in tecnologie alimentari e dove da qualche anno erano attive due sezioni sperimentali, quella ad indirizzo biologico (che scartai subito) e quella ad indirizzo ambientale che oltre alla chimica industriale, ponevano delle basi aggiuntive su due branche particolarmente attuali e fu quest'ultima in cui mi ritrovai.
Sordo davanti alle rimostranze di mio padre, che cercò in tutti i modi di dissuadermi da questa scelta, forse perché trent'anni prima a sua volta anch'egli aveva scelto chimica industriale (ironia della sorte, al triennio mi ritrovai anche un suo vecchio professore), ma ai miei giorni, non vedeva grandi sbocchi lavorativi.
La scuola era bella e come detto, vi passai cinque anni ricchi di emozioni e di bei ricordi, l'amore con la ragazza del quarto anno restò tuttavia solo platonico.
A seguito di quella scelta, accantonai definitivamente i miei interessi elettrici, preso dagli eventi che contraddistinguono la maggior parte dei ragazzi di quella fascia di età.
Della chimica in realtà continuò a fregarmene sempre molto poco, mi diplomai con un misero 40/60mi senza infamia e senza lode, come si dice in questi casi.
No, decisamente non mi sento un esempio da seguire, diciamo pure che mi vergogno un po' a scrivere di queste cose, ma in fondo fanno parte di me e forse è bene liberarsene di tanto in tanto.
Preso il diploma, non avevo la minima intenzione di restare sui banchi a studiare non so bene cosa, complice la situazione familiare (vivevo con mia madre, infermiera professionale) non di stenti, ma nemmeno così agiata, decisi di trovarmi subito un lavoro, giusto per cominciare a guadagnare qualcosa e per potere sentirmi a mio modo utile aiutando mia madre con le spese.
Lavorai per diversi mesi, intervallati da periodi a spasso (per mancanza di commesse) presso una tipografia a steccare calendari olandesi un lavoro noioso come pochi, nove ore al giorno (salvo straordinari) a schiacciare il pedale di una macchina semiautomatica pneumatica che spianava una stecca metallica a cavallo tra i folgi dei dodici mesi e il cartoncino pubblicitario del cliente commissionario.
Il mio lavoro era noioso, anche perché passavo più tempo a sbloccare la meccanica della steccatrice che ad eseguire il lavoro vero e proprio, ma devo dire che la tipografia (non troppo piccola) aveva invece un suo fascino.
Imparai ad utilizzare il tagliacarte e solo quello purtroppo, le rotative quadricromiche da stampa infatti erano fuori dalla mia portata. Fu allora che mi soffermai per la prima volta sul comando a due mani, l'addetto al tagliacarte (u zu' Vittuoriu 2), un signore sulla sessantina, pensionato ma impiegato (vabbè) nella tipografia, aveva una falangetta (o forse due) in meno del normale.
Ricordo con nostalgia anche quegli anni, fu un bel periodo, il primo impatto col mondo del lavoro fu senza dubbio positivo.
Non posso dimenticare il mio primo stipendio, a partire dal mese di ottobre si lavorava anche il sabato, un'ora di straordinario era pagata 5.500£ e ognuno si scriveva le proprie ore in più su un calendario personale (manco a dirlo!), un mese di paga, il primo, con straordinari 964.000£, era un sabato di fine ottobre, ed uscii dall'ufficio del boss con quel malloppo di banconote che mi veniva quasi da ridere, era una cifra esagerata anche se mi ero fatto il mazzo per guadagnarmela; come ultimo arrivato infatti, ero anche chiamato (insieme ad un altro "collega" anche lui "nuovo") a movimentare quintali di risme di carta col transpallet su e giù da uno scivolo con pendenza improbabile, e devo dire che di camion da scaricare ne arrivavano parecchi. Ad ogni modo, quasi un milione di lire, nel mio piccolo devo essermi sentito come Rockefeller.
Con quel primo stipendio, ricordo che comprai il televisore nuovo, un Mivar da 28", il vecchio Mivar (da 17") infatti si era già guastato da un po' di tempo, a dire il vero, non guardavo televisione in quegli anni e oggi le cose non sono molto cambiate, fu più un regalo per mia madre, ma mi accorsi che nemmeno lei la guardava granchè.
Come ho imparato più avanti, tutte le cose finiscono, e ben presto fui vittima dello scarso volume di lavoro in tipografia, mi chiamavano sostanzialmente solo per la stagione invernale, anche se manifestarono sempre affezione nei miei confronti, che spontaneamente e sinceramente ricambiavo come possibile. E quando qualche anno dopo mi chiamarono per propormi un'assunzione 'regolare' dovetti riununciare, chissà se feci bene?
Così tra un periodo di lavoro e un altro, seguii un corso finanziato dalla Regione Sicilia e dalla Comunità Europea rivolto proprio ai diplomati in chimica industriale ad indirizzo ambientale. Il corso (gratuito) durò quasi un anno e formava dei tecnici addetti alla gestione impiantistica e alla manutenzione degli impianti di depurazione.
Finito il corso, in quegli anni andavo avanti con lavoretti saltuari, qualche mesetto in un laboratorio fotografico (con annesso negozio), qualche giornata come manovale, tutto fa brodo.
La grande occasione
La mia occasione arrivò tramite raccomandazione; mio padre fu uno dei primi assunti alla Fiat di Termini Imerese, ma verso la fine degli anni '90 non c'era possibilità di entrare direttamente (e manco indirettamente) nello stabilimento; così mi fu offerta la possibilità di fare uno stage di qualche mese, presso un'azienda di verniciatura industriale che gravitava nell'indotto dello stabilimento Fiat.
In quegli anni si produceva la '188' la seconda versione della Punto.
Il mio lavoro si svolgeva in linea, ero infatti addetto allo scarico dei paraurti verniciati dalle bilancelle e al controllo delle eventuali difettosità, dovendo poi riporre i vari pezzi in carrelli diversi a seconda che fossero idonei al ciclo successivo o che necessitassero di riprese fuori linea
La linea di verniciatura automatica era uno spettacolo ai miei occhi, era un impianto innovativo e mi sembrava di trovarmi in una camera bianca, si riaccese la vecchia fiammella!
Nonostante il megaimpiantosuperinnovativoetecnologico con robot Kuka addetti a flambare e verniciare i paraurti, spesso e volentieri vedevo entrare un vecchio ex operaio Fiat dentro una della cabine e spruzzare a mano.
Va detto che non ero il solo "nuovo" in quel periodo, tutto l'impianto era stato montato da poco tempo, le maestranze erano ancora da formare e la qualità (all'inizio) era scadente.
Iniziai da subito a fare i turni, anzi, mi facevano fare sempre il pomeriggio (14:00-22:00), e fu singolare come una sera mi trovai alla pausa delle 19:00 con una caterva di paraurti per terra, tutti ben posizionati sui cartoni: tutti da riprendere (da lucidare per eliminare i puntini di sporco). Il capoturno venne a chiedermi spiegazioni e a dirmi che non poteva andare così; mi limitai a rispondergli che poteva controllarli uno per uno, se poi a suo dire potevano andare bene bastava che mi autorizzasse a metterli nei carrelli "materiale conforme", ed avrei provveduto a sgomberare quella enorme area pavimentata da tutti quei paraurti. Non mi disse nulla, guardò qualche paraurti, parlò col resp. qualità e se ne andò via borbottando ed imprecando sul fatto che ancora non si riusciva a fare andare l'impianto come si sperava.
Ricordo che si scherzava quando alla pausa mensa, uscivamo sulla strada del lungomare davanti lo stabilimento e vedendo passare le Punto in collaudo senza paraurti anteriore e posteriore ci dicevamo: "Fanno così schifo che non li montano nemmeno!"
La seconda grande occasione
Dopo qualche mese avevo un contratto di apprendista per 18 mesi sul tavolo, 1.100.000£ al mese, non moltissimo se considerato che dovevo farci rientrare le spese di viaggio. Ma ero pronto a firmarlo.
All'ultimo minuto rifiutai, si manifestò infatti una seconda possibilità.
Due chilometri più avanti, c'era un'altra ditta (tra le altre) dell'indotto Fiat, ben più piccola di quella che faceva verniciatura che contava un centinaio di addetti, questa fabbrica produceva le imbottiture in poliuretano espanso, ricordo ancora l'odore che inalai la prima volta che vi misi piede dentro, non era fastidioso, era un odore curioso, quasi piacevole.
Cercavano un chimico! Addirittura un laureato, perbacco e che faranno mai? In realtà, per quello che fui chiamato a fare, bastava anche meno del chimico! Comunque si accollarono di prendersi anche un 'semplice diplomato'.
Fui assunto con contratto a tempo determinato, un anno più eventuale rinnovo per un altro anno. Lo stipendio e le mansioni si presentavano più interessanti rispetto alla fabbrica di verniciatura.
Il mio raggio di azione doveva comprendere la preparazione delle mescole e il supporto al resp. qualità nella gestione dei controlli sul prodotto, oltre ad imparare il più possibile nell'ottica delle imminenti dimissioni di questi.
I primi tempi non furono facili e mi pentii di non avere scelto la verniciatura, essendo in prova ero pronto a mollare in qualunque momento; adattarmi a viaggiare mi prese un po' di tempo.
Si trattava 'solo' di centotrenta chilomentri al giorno, ma per uno che aveva rinunciato ai suoi sogni per venti chilometri di strada è quanto dire!
Fu allora che mi ritornarono in mente le parole proferite molti anni prima dalla mia professoressa di italiano (a cui devo molto) delle scuole medie che nelle scale, durante il cambio d'ora mi disse: "Attilio, tu farai molta strada!"; non c'è che dire mai profezia fu più azzeccata! Alla fine viaggiai per otto lunghi anni, con qualche incidente sfiorato a causa del colpo di sonno, prima di trasferirmi con moglie e figli nella cittadina termitana.
Imparando a conoscere l'ambiente poi, si inizia a sentirsi a casa e presto fu così anche per me.
In un'azienda seppure piccola in quella realtà, ma facente parte di una Spa internazionale con diversi stabilimenti sparsi in Italia ma non solo, e con un elevato know-how nel campo della gommaplastica la fiammella si accesse diventando un incendio.
In quello stabilimento potevo dare spazio a tutta la mia fame di curiosità, anche oltre ogni immaginazione, tra l'altro capii ben presto che per la quantità di macchinari nei vari reparti, una mano di aiuto ai manutentori avrebbe fatto non poco comodo.
Ma la cosa fondamentale che mi prefissi era "capire come funziona... tutto!", capii che se volevo sapere qualcosa dovevo chiedere e così facevo compatibilmente allo svolgimento dei miei compiti primari.
Le occasioni non mancarono, cercavo di fare collimare le mie responsabilità anche con altre attività, miglioramento degli impianti, riduzione dei fermi macchina.
In un certo senso, la struttura aziendale non era così rigida, quindi a patto di non fare cazzate, visto il mio ruolo abbastanza flessibile, mi fu lasciata carta bianca, anche se mai questo fu messo nero su bianco.
Ma questo mi importava solo marginalmente, il mio interesse era di fare esperienza a 360°, integravo quello che imparavo sul campo, andando a ricercare le spiegazioni (quando non potevo riceverle o quando non mi sembravano attendibili o esaurienti), attraverso la consultazione di testi di elettrotecnica e macchine elettriche e più raramente elettronica.
Poi, a metà degli anni duemila ci fu la novità di internet, i forum tecnici e i siti tematici, mi diedero una grande mano.
Continuavo comunque a sfogliare gli schemi elettrici (e non solo) di tutti i macchinari, i cataloghi i prodotti, prendendo via via coscienza del mio modo di agire, passando dallo stato di utente passivo ad uno stato di attività sempre più ponderata, spingendomi via via sempre oltre, senza fretta o frenesia però, poiché ho sempre messo al primo posto i miei compiti ufficiali e la sicurezza mia, altrui e delle attrezzature aziendali.
Credo si possa chiamare maturità professionale, il cui riconoscimento si materializzò (almeno io ebbi questa sensazione) nell'essere nominato responsabile della manutenzione di stabilimento.
Figura per me non particolarmente emozionante, ma che non mi toglieva certo il tempo per gli interventi sul campo, che con l'invecchiare dell'impianto erano via via sempre maggiori e sempre più subdoli.
Per gli oltre tredici anni passati in quella azienda, posso ritenermi soddisfatto del mio percorso, sotto diversi punti di vista, in quegli anni posso dire di essermi occupato ed avere fatto ed imparato di tutto, dal lavoro in linea di produzione (è capitato diverse volte e poi, imparando e svolgendo per settimane il lavoro della linea, si riescono a comprendere problematiche e potenziali miglioramenti delle varie postazioni, un bagaglio di informazioni non indifferente) alla sostituzione del resp. logistica, senza essermi mai tirato indietro davanti a niente e rispettando ogni figura lavorativa come anello indispensabile di un'unica catena, sì mi ritengo sinceramente fortunato, perché non a tutti è data la possibilità di spaziare nell'ambito lavorativo con un raggio di azione così ampio come è capitato a me.
In ragione di questo, se mi chiedessero qual è l'ingrediente per non annoiarsi nel proprio lavoro, direi senza dubbio: la curiosità.
Il fatto di operare in una piccola realtà è stato senza dubbio fondamentale, nel periodo di massimo splendore eravamo poco meno di quaranta addetti, a gennaio, quando siamo entrati in CIGS invece, solo diciannove.
La cosa che però ricordo con estremo piacere è l'affiatamento con i miei due colleghi manutentori, ma anche col resp. logistica, che poi era anche responsabile amministrativo, si occupava degli acquisti, gestione della produzione, ecc. Un rapporto che mi porterò dietro per sempre, interventi diurni e notturni, sabati fino a tarda sera ma anche domeniche a fare riparazioni per garantire la ripresa produttiva.
Scambi di turno per non lasciare mai l'impianto privo di supervisione, talvolta organizzati tra di noi stessi in regime di mutuo soccorso, senza dovere chiedere necessariamente permesso al diretto superiore, perché in fondo, forse, anzi sicuramente a torto, ho sempre pensato che se fai la cosa per un fine utile, nessuno può rinfacciarti nulla, ma nella realtà spesso non è così.
E poi episodi che neanche ricordo più e che il più delle volte non hanno un loro scatolone dove essere conservati e dal quale essere tirati fuori nei momenti di nostalgia.
In realtà non credo di avere dato seguito a quanto admin si aspettava in quel suo articolo di sei anni fa, mi sono limitato ad aprire alcune scatole dei miei ricordi, del mio vissuto, di cui non credo di essre geloso a tal punto dal volerlo tenere solo per me.
Certo ognuno di noi, ha centinaia di scatole di ricordi, alcune più intime, che non vanno sbandierate ai quattro venti, anche io ho le mie, in questo articolo ne ho aperta solo qualcuna e non è detto che l'abbia poi svuotata fino infondo.
La storia però si ripete, cambiano le scenografie, anche la fabbrica di poliuretano è almeno momentaneamente chiusa, ma questo lo avevo già raccontato qui, ed accennato anche altrove, penso che si aprirà un nuovo capitolo, altrove, un'altra sfida personale, sperando di essere sempre supportato dalla mia curiosità e dalla mia voglia di imparare.
Ogni individuo bene o male, ha una certa coscienza di sé, del proprio valore relativo, c'è chi ha un ego smisurato e chi invece per sua natura mantiene un profilo basso, e ci sono le vie di mezzo. Io di me ho le mie idee, giuste o sbagliate che siano, ma l'avere sbagliato nella scelta del triennio tencico è una cosa di cui mi porto il peso addosso. Oggettivamente penso che non sia una cosa importante, non è il pezzo di carta che attesta le capacità e le competenze di una persona, neanche la patente di guida lo fa.
Quello che mi infastidisce, oggi più che in passato, è venire "additato" come chimico, e sembra che più io cerchi di evitarlo più questo accade. Non ho niente contro i chimici, ci mancherebbe, ma fondamentalmente è un qualcosa in cui non mi riconosco, è come se, in quanto cane, venissi chiamato micio!; inoltre, come se non bastasse, ho come cancellato quelle poche conoscenze acquisite sulla materia a tal punto da fare spesso magre figure quando mi si chiede qualcosa a riguardo; la frase di circostanza suona per lo più "Ma cuomu? Un sì chimico? 3"; è come non essere né carne né pesce, non sono chimico e non sono elettrotecnico.
Sono arrivato al punto da preferire di non specificare nulla quando mi chiedono se sono diplomato, ma come detto, la mia è oggettivamente una stupida paranoia.
Note:
1 "Attilio, lascia stare quelle cose, non servono per giocare!"
2 "lo zio Vittorio"
3 "Ma come? Non sei chimico?"