11 aprile 2001
Se Zelo mi colpì per una sua metafisica bruttezza, che in un certo senso giustificava il detto "A Zelo no ghè gnente de belo", Calto mi ha emozionato per una sua dignitosa armonia.
Ci sono ragioni da ricercare nei miei geni, ma questo paesino comunica un atteggiamento sereno verso l’esistenza. Non ha pretese di verità, ma dimostra che, tralasciando di guardare dentro la nostra solitudine esistenziale, si possono trovare luoghi, cose, momenti in grado di regalarci una tranquillità positiva.
Così è il silenzio verde, oggi bagnato dalla pioggia, di Calto, paesino cui si accede abbandonando la provinciale, aggrappato all’argine accarezzato dal Po che più volte ne ha lambito il culmine.
Mai però, che io sappia almeno, si è accanito contro la graziosa chiesetta bianca di San Rocco che decora, con canonica e porticato bianchi, il suggestivo angolo della piazza. Nemmeno nella grande alluvione del novembre del 1951, quando tutti gli abitanti dei paesi della sinistra Po, da Melara a Calto, lasciavano le loro abitazioni, e molti, tra i quali anch'io bambino di tre anni, si rifugiavano in tende installate sull'argine maestro: la rotta era prevista imminente nell'ansa di Chiavecchino (el Ciaguìn) al confine tra Bergantino e Castelnovo Bariano, rotta che invece si verificò più a valle verso Occhiobello.
Dicevo dei geni: Calto è il paese dei miei nonni materni, Giulia e Giovanni, gli unici che ho conosciuto.
Nella chiesetta bianca, nella sua discrezione, nel suo misurato orgoglio, ho rivisto nonna, poi ho cercato di immaginare dove i suoi occhi si fossero incrociati con quelli del nonno.
Mentre con la mia Ixus 2 Megapixel fissavo i particolari per me più significativi, mi imbatto in una segnalazione turistica: Villa Fioravanti.
Mi precipita allora nei ricordi un episodio più volte raccontato; uno di quegli episodi semplici ma emblematici per la capacità di caratterizzare una persona, un ambiente. Ripetuti ad intervalli regolari nel tempo, nelle occasioni in cui ci si ritrova per ricostruire ricordi, danno forma al modo di essere di una famiglia.
Ora dal progressivo deserto con cui il tempo mi circonda, molte voci reali non arrivano più, ma ci sono momenti in cui la mia memoria attiva la riproduzione di quanto registrato.
L’episodio mi era sempre parso un po’ fantasioso, conoscendo il nonno, ma il cartello con “Villa Fioravanti” me lo ripropone con una concretezza improvvisa e divertita; non vedo l’ora di vedere la villa e mi incammino lungo la via indicata.
La villa ha una sua umile imponenza, anche se la rete che divide in due parti il viale di ingresso è, inequivocabilmente, il segno di una perduta nobiltà.
Però si capisce che era lì che poteva abitare un conte.
Raccontava dunque mio nonno che un inverno c’era stata a Calto una nevicata molto intensa.
In ogni paese ci sono personaggi che lasciano il segno della loro assoluta libertà, del loro modo non convenzionale di concepire e vivere la propria vita. Un modo che non si possono tutti permettere, ma che rappresenta una filosofia da non dimenticare, che necessita di chi ne incarni l’essenza: è colui che resiste all'omologazione di obiettivi e desideri, al conformismo sociale, andando anche un po' oltre.
Uno di questi era Ciumìn, cultore di un’assoluta indipendenza nelle proprie decisioni sui compiti inerenti la sua vita, uno spirito sostanzialmente libertario ed anarchico, tanto per capirci ;)
“Ciumìn, varda quanta nev che gnest”1 diceva ad alta voce la moglie mentre la mattina spalava la neve davanti alla porta di casa.
Ciumìn sentiva, ma niente, continuava a rimanere sotto le coperte.
Nonno, nel raccontare, si capiva da che parte stava; Ciumìn, se non proprio il suo idolo, era meritevole della sua ammirata attenzione.
La moglie allora lo incalzava:
“Dai Ciumìn, vieni zo anca ti”2
e cercando di risvegliare un suo senso di responsabilità sociale nonché l'orgoglio di persona solidale, aggiungeva:
“Dai Ciumìn, varda che in piaza jè tuti là chi spala la nev”3
A questo punto il silenzio di Ciumìn si interrompeva e dalla finestra del piano superiore della piccola casa, giungevano le sue parole:
“ I ghè tuti?!... Ghè anca al cont Fioravant?”4
La richiesta sorprendeva, ma non tanto, la moglie che continuava a spalare.
Dopo un breve silenzio, quasi per ritardare la risposta che, in cuor suo, già conosceva, lo informava:
“Ma no, at par ca gh’sìa al cont!...”5
“Ben, alòra a stag a let anca mi!”6
concludeva Ciumìn.
La moglie allora per non imbarcarsi in discussioni logico-filosofiche che sarebbero sconfinate nella politica, dondolava la testa continuando a spalare da sola.
Certamente si domandava perché avesse sposato Ciumìn, ma forse, mentre un leggero sorriso le inarcava le labbra, anche vi rispondeva. Sì, e vero, sarebbe stato bene che anche suo marito fosse sceso a spalare la neve, sarebbe stato normale e socialmente utile. Però ci vuole sempre qualcuno che ricordi, non solo a parole, che un conte non è più persona di un altro più povero e più debole, e che la libertà di un conte è una libertà che ognuno deve sentire di potersi prendere. Magari se ne serve anche per perfezionare un'innata indolenza, ma questo è un discorso da approfondire in altra sede.
Mio nonno. Mia nonna.
Calto.
In questo paesino, il più piccolo della provincia di Rovigo, è iniziata metà della parte conosciuta di ciò che sono.
Se la vita di ognuno dovesse avere un senso, cioè se quel che avviene dovesse essere ciò che deve avvenire, potrei perfino pensare di essere uno dei motivi per cui essi sono esistiti. E' fortemente strano riflettere sulla resistenza dell'esile filo che, in milioni di anni, non si è spezzato tenendo in sospeso per tanto tempo la mia esistenza.
Non posso allora non cercare di comprendere dove sia avvenuto l’episodio che nonna ha più volte ricordato, concludendo sempre il racconto con una scherzosa considerazione, un po’ ironica, un po’ vera, ma fondamentalmente accettata.
Tra fidanzati, anche circa un secolo fa, a momenti radiosi si alternavano piccoli litigi.
Una volta tra nonno e nonna il litigio sembrò più forte. Il motivo non lo conosco, non so se nonna lo disse, ( ma non credo: le ragioni intime non sono mai esplicite); sta di fatto che dopo accese discussioni nonna volse le spalle al nonno e si allontanò.
Tra loro era finita.
Lei camminava inizialmente spedita, fiera e sicura della decisione presa.
Progressivamente però rallentò il passo, avvertendo un forte desiderio di vedere cosa facesse il nonno.
Ma non voleva girarsi perché significava cedere.
La curiosità però era grande.
Stava ancora là a guardarla allontanarsi, o a sua volta si stava allontanando dal luogo del litigio?
I due diversi comportamenti avrebbero gettato luci opposte sulle motivazioni della loro incomprensione.
Se lui la stava ancora osservando immobile, probabilmente le voleva ancora veramente bene.
Se così fosse stato, non era forse eccessiva la sua decisione di troncare la relazione?
Se invece anche lui si stava allontanando, probabilmente era giusto che la loro relazione si concludesse.
Il cuore le tumultuava ed il passo si faceva più corto e meno frequente, mano a mano che sempre più confusa le appariva la decisione presa.
“Finita per sempre” le rimbombava nella testa e generava una forza che sembrava imporle di fermarsi e girarsi.
Ma pure l’orgoglio per non girarsi era fortissimo.
Però si fermò.
Abbassò la testa.
Cercò di resistere e di riprendere il cammino.
Ma la forza misteriosa che le aveva messo in subbuglio testa e cuore prevalse.
Ed ella si girò.
Mio nonno era ancora là, fermo nel punto del litigio e la guardava allontanarsi.
Nonostante fosse lontano capiva che dal suo viso il sorriso era scomparso, insieme alla spavalderia che l’aveva irritata, e forse quel bagliore che intravedeva era una lacrima che rifletteva un raggio di sole.
Nonna si sentì responsabile di un dispiacere sproporzionato rispetto all’evento che lo aveva provocato.
Ritornò sui suoi passi ed il nonno le si fece incontro.
Si abbracciarono.
E la loro storia si è propagata fino ai miei figli.
“Parché am son girada cla olta lì?”[7]
concludeva sorridendo ogni volta che ricordava l’episodio.
Ora io cerco di capire dove avvenne l’evento, decisivo per la mia esistenza.
Mi avvio sotto la pioggia verso l’argine del Po ed in golena, affiancata da due boschi di pioppi, c’è una stradina che porta al fiume.
Ai lati ci sono alberi con la targa che li descrive con il nome di chi li ha piantati.
Un frassino, una quercia
Giovanni, Giulia
ecco un segnale
Forse è questo il luogo che stavo cercando!
Note
[1] Ciumìn, guarda quanta neve è caduta
[2] Dai, Ciumin, scendi anche tu
[3] Dai Ciumìn, garda che sono tutti in piazza a spalare a neve
[4] Ci sono tutti? C'è anche il conte Fioravanti?
[5] Ma no, ti sembra possa esserci anche il conte?
[6] Bene, allora rimango a letto anch'io
[7] Perché mi sono girata in quell'occasione?