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Le motivazioni
Un insolito pallore dopo un bagno nel fosso dietro casa (allora i fossi non erano così inquinati), insospettì mamma che mi portò dal medico; il quale, per fortuna, quella volta capì. Fui operato con urgenza. Si trattava d'appendicite, aggravata da un principio di peritonite. Non fu un intervento semplice, e quando mamma ne parlava nel viso le si leggeva la paura: mi ero salvato per miracolo.
Tornai a casa dopo una settimana di degenza, un vero calvario per la sete che patii. Per un paio di giorni mi fu impedito di assumere qualsiasi liquido, quindi si passò ad un cucchiaino d'acqua zuccherata, mescolata ad una goccia di caffè, ogni mezz'ora. Io avevo preteso un orologio per controllare i minuti che separavano un cucchiaino dall'altro, ma quei trenta minuti non passavano mai. Soffrivo fisicamente; febbre (oltre 40°C) e disidratazione producevano allucinazioni: "A t'andaséi ai straàli", mi raccontava mamma, che mi era sempre vicina.
Era l'agosto del 1955, nel pieno della mia prima vacanza scolastica estiva.
La convalescenza a casa consentiva una ripresa serena ma, forse, faticosa. Fu, credo, per questo motivo che qualcuno convinse i miei che l'aria del mare m'avrebbe giovato. Nonostante i pochi soldi che circolavano in famiglia, c'era anche per me, purtroppo devo dire, la possibilità, di usufruire dei benefici del mare andando in colonia nel settembre successivo.
Non so se mamma fosse proprio contenta della decisione, sono anzi sicuro che nutrisse qualche timore. Del resto mi conosceva troppo bene, e poi, negli anni che seguirono, non vi accennò mai più. Fatto sta che un bel giorno mi parlò dei vantaggi e dei piaceri che avrei potuto trarre da un soggiorno in una località di mare.
A me non interessava niente del mare, del sole, della sabbia. Gli altri si divertivano, dicevano; ma quanti sono veramente sinceri? Poi al ritorno stavano bene. C'era chi aveva tosse e raffreddore per inverni interi: un mese di mare e per tutto l'anno successivo, nemmeno uno starnuto! Mah...
Quel che sapevo di certo era che si trattava di un ambiente lontano, diverso dal mio.
Il solo pensiero di trovarmi tra estranei in un posto sconosciuto, fosse anche stato per un solo giorno, mi terrorizzava. Non parliamo poi di un mese, la durata prospettata, una vera eternità per i miei sette anni. Già ero a disagio all'asilo, nei corridoi affollati e vocianti, nei cortili dall'aria ostile e trafitta dai raggi di sole accecanti e polverosi. E poi: il nauseabondo odore di pasta e fagioli, vomitata nelle rimbombanti mense; l'obbligo di sonnecchiare, nel primo pomeriggio, su sedie a sdraio traditrici; e giochi probabilmente insulsi tanto che non ne ricordo alcuno. Che incredibili sofferenze!
Per fortuna era finito quel periodo, non dovevo più subire l'esuberanza di certi scalmanati o le intimidazioni delle suore. In prima elementare m'ero trovato meglio: bambini meno numerosi, meno chiassosi e globalmente più maturi; e poi la maestra era più simile ad una mamma, molto meglio delle suore incappucciate dell'asilo. Volendo si poteva anche imparare qualcosa ed avere delle soddisfazioni.
Partenza
Mamma però insistette, finché, ad un certo punto, pensai che rifiutandomi di andare, l'unica cosa che il mio corpo e la mia anima desideravano, avrei finito per procurarle un dispiacere maggiore del mio nell'accontentarla. Poi magari mi sarei di nuovo ammalato perché non avevo respirato l'aria giusta, e chissà questa volta come sarebbe andata a finire. Io tuttavia ero sempre disposto a rischiare di rinunciare a quell'aria.
Mi assicurò che partiva con me anche Sandro, e poi c'era Caiìn: avrei potuto giocare là con loro.
Nessun argomento, ad ogni modo, era per me accettabile: partire, stare imprigionato in un posto di cui nemmeno sospettavo l'esistenza, sicuramente obbedire a comandi odiosi, fare passeggiate senza senso, giocare senza gusto, niente ecco, la cosa era inconcepibile.
Non so se dissi sì per accontentare mamma; può anche darsi, perché le volevo molto bene. Ma è molto più probabile che io sia stato zitto, sperando tenacemente che la storia finisse lì; senonché il mio silenzio fu interpretato come tacito assenso.
Così mi trovai nella fresca nebbia dell'alba mattutina di un'estate morente, ad aspettare una crudele corriera.
Sì, non ero solo, c'era mamma che mi teneva ancora per mano, mi indicava gli amici che avrebbero fatto il viaggio con me e che avrei avuto al mare; ma non era sufficiente.
Io guardavo tutto quello che mi circondava come fosse l'ultima volta che lo vedevo; non avevo la forza di sorridere e nemmeno quella di piangere; cominciavo a sentirmi dissolvere. Era come l'inizio di una vaporizzazione del mio essere. Ma non volevo neanche che mamma facesse una brutta figura, circondata com'era da tante altre mamme sorridenti che salutavano bimbi allegri, apparentemente normali, ma inspiegabilmente, alcuni almeno, contenti di partire. Non so se altri vivessero un dramma simile al mio. Può anche essere, voglio almeno sperarlo, ma io ero così immerso nella sensazione d'annullamento del mio esistere, che sentivo solo una sconfinata tristezza.
Non so come salutai mamma, né se riuscii a non piangere. So che ad un certo punto mi trovai sulla
Corriera blu
Che dire di questa struttura semovente? Era blu, aveva il muso prominente che racchiudeva il motore, ma ciò che costituì per me una novità, che si rivelò poco dopo sconvolgente, fu che la parte posteriore era a due piani.
Si dovevano raccogliere molti altri poveri bambini che ci aspettavano nei successivi paesi, ed occorreva una corriera capiente.
Mi sistemarono proprio al piano superiore, dove, senza esserne cosciente avrei potuto sperimentare l'effetto serra ed il movimento ascensionale dell'aria calda.
Inizialmente ero incuriosito dalla strana corriera, e guardavo, dall'alto, la strada scorrere via senza rimedio. I vetri non erano limpidi e tutto, oltre che lontano, appariva sfumato ed irreale.
Intanto i piccoli e tristi viaggiatori aumentavano di numero, e capitò, ad un certo punto, di doversi stringere per far posto a bambini sconosciuti.
Ho detto tristi viaggiatori poiché, ancora nella mia mente di adesso, non avrebbero potuto essere altro che così. Inoltre io cercavo sui loro volti l'ombra della tristezza, perché presumevo che, solo dietro quell'ombra, avrebbe potuto nascondersi un amico, se pure di sventura. Quelli allegri e chiassosi m'imbarazzavano e li sentivo lontani, quasi fossero degli esseri diversi, non umani.
Mi era di fronte la signorina o suora o che so io, insomma chi doveva controllare che il nostro viaggio procedesse bene.
Sì bene: non mi potevo muovere! Quegli occhi astratti puntati addosso, me lo impedivano.
Ma, tutto sommato, il perenne controllo sarebbe anche stato sopportabile. Io non ero di quei tipi agitati che non riescono a stare seduti. Ci sarei stato tranquillo seduto, avevo la capacità di estraniarmi, di fantasticare, senza alcuna allegria ovviamente, ma almeno senza sofferenza fisica.
Quando la corriera fu piena, il fresco del mattino aveva lasciato il posto ad un sole che scagliava raggi infuocati contro i finestrini chiusi. La temperatura cresceva per l'effetto serra tendendo ad un massimo che ci avrebbe annientati. Sudore e ad altri gas emessi dai piccoli viaggiatori che, aggravando la situazione, si agitavano sempre di più, si sostituivano gradualmente all'ossigeno dell'aria incapsulata nel ventre di vetro e lamiera che ci ospitava.
Quando la temperatura raggiunse, penso, i 50 °C ed il 70% dell'ossigeno disponibile fu esaurito , con la bocca aperta ed il cuore impaurito, costretto ad un tumultuoso pulsare per aumentare la velocità dei globuli rossi, sempre meno riforniti d'ossigeno dai polmoni, mi arrischiai ad aprire il finestrino.
Un flusso d'aria entrò e stavo proprio per risorgere, quando si alzò l'addetta al nostro controllo.
Con inspiegabile cattiveria, l'astratto essere che ci controllava, per il quale l'ossigeno era evidentemente un veleno, richiuse il finestrino, facendoci ripiombare, dopo pochi secondi, nello stato di pre-soffocamento.
La motivazione era che le correnti d'aria erano pericolose, che avremmo potuto prendere una polmonite, sudati come eravamo. Io penso si trattasse di crudeltà pura, o quantomeno di pericolosissima ignoranza della biologia terrestre. E poi non capivo la differenza tra il morire di polmonite ed il morire soffocati. Qualche altro bambino cercò di far presente il nostro stato, ma neanche lui fu ascoltato. Alla fine tutti ci rassegnammo, socchiudemmo gli occhi, aprimmo la bocca inclinando indietro la testa in attesa della fine. Credo di essermi addormentato, non saprei altrimenti come avrei potuto mantenere le mie funzioni vitali.
Arrivammo comunque a destinazione.
Non saprei dire se ci furono vittime tra noi bambini. Di sicuro non ce ne furono tra le sorveglianti, perché, per tutto il mese seguente, trovarono il modo di far sentire la loro presenza. Ero piccolo e non sapevo quel che successe durante la seconda guerra mondiale, e quando lessi, molto tempo dopo, "Se questo è un uomo" o vidi film come "Schindler list", non potei fare a meno di pensare al mio viaggio di trasferimento al mare di Cesenatico su quella terribile corriera blu.
Infermeria
Arrivai, ma non ricordo nulla, proprio più nulla, né dell'ora né del posto, né in che stato vi arrivai.
Il primo ricordo del mio indesiderato soggiorno, è il ricovero in infermeria.
Mi trovai sotto le coperte del letto di una stanza bianca, e mi verrebbe da pensare di esservi stato trasportato direttamente dalla corriera a due piani, in stato comatoso.
In realtà, poco prima dell'arrivo, dovevo essere ancora cosciente, poiché nei giorni che seguirono fantasticavo su progetto di fuga che sembrava possedere, nella prima fase, un percorso sicuro. C'era un viale alberato ed in fondo avrei girato a destra; ricostruivo, presumo, il percorso osservato dal finestrino prima che la corriera si fermasse. Il viale era quello che intravedevo dalla finestra socchiusa dell'infermeria, così almeno speravo. Non appena mi fossi sentito meglio, l'avrei imboccato, in un momento di disattenzione dei guardiani, e mi sarei diretto deciso verso casa. Quel pensiero m'incoraggiava a resistere e mi faceva assaporare il gusto della libertà che avrei ritrovato. Ma dopo le due strade cosa dovevo fare? Dovevo svoltare a sinistra o a destra in fondo alla seconda? Questo secondo tratto di percorso non riuscivo proprio a ricostruirlo. E se durante la fuga mi fossi perso?
Ero molto insicuro, tant'è che dopo il turbinio dei pensieri di fuga che mi esaltava, alla fine crollavo e piangevo. Lacrime lente, silenziose, nascoste, ma quasi disperate. La mia vita era cambiata, io non ero più io. Cosa mi sarebbe successo? Come facevo a percepire ancora di esistere? Un'esistenza lieve, nebbiosa: corpo e mente fluttuavano in un vuoto di progressiva separazione da un qualsiasi significato dell'essere.
La ragione del ricovero in infermeria, la scoprii un mattino, quando, due o tre alieni in camice bianco, mi estrassero dalla gola delle palle gialle. Non ho mai saputo che fossero. Indagini non ne feci, né durante né dopo il periodo della colonia. Probabilmente una reazione chimica innescata, durante il viaggio in corriera, da qualche forma di batteri anaerobici nella mia gola priva d'aria.
In infermeria credo di esserci stato per almeno cinque giorni. Poi tornai o, per la prima volta entrai, nelle camerate dell'edificio senza volto che ospitava la
Colonia
Dell'aspetto dell'edificio non ho traccia nella memoria. Nella rielaborazione di quella triste esperienza, il luogo fisico scomparve e lasciò il posto esclusivamente alle sensazioni di vuoto che mi procurò e che divennero per me, l'essenza della colonia: un luogo da cui fuggire per poter ritornare a vivere.
Sarà stato, di sicuro, un edificio impersonale e spoglio, ma spietato verso gli ospiti, per una trasversale compensazione della violenza del sole che incendiava l'aria salmastra che lambiva le sue facciate. Probabilmente era recintato, non da mura possenti, ma da una rete sormontata da filo spinato, più che sufficiente perché i piccoli ospiti riflettessero sulla libertà perduta.
Ad un certo momento della giornata mi ritrovavo immerso nell'odore di pasta e fagioli vomitata, che mi riportava nella mente, nel naso, nello stomaco i tristi tempi dell'asilo.
Ho detto all'inizio che non m'interessava nulla del mare e del sole. Ma sarei volentieri andato sulla spiaggia, mi sarei avvicinato all'immensa massa d'acqua che col suo potente ed incessante respiro, mi avrebbe fatto vedere, oltre la sua immensità, il mondo e gli affetti che avevo lasciato. Ma, o c'era troppo sole, o troppo vento, o troppe nubi, o troppa pioggia. Insomma per continui pretesti di menti malate o, quantomeno, contorte, vicino al mare, non c'ero quasi mai. Ci andai per la foto ricordo con la signorina che ci assisteva (dirò che modo...), e quando con Sandro e Caiìn, (finalmente potei incontrarmi con i miei due compaesani che purtroppo, penso per pura crudeltà dell'organizzazione coloniale, non facevano parte del mio gruppo), scavammo una buca, ricoprendone l'orifizio con frasche mimetizzate con la sabbia, disponendoci poi un po' distanti, nascosti. Io speravo che qualche sorvegliante ci cadesse dentro, e, forse esagero nel ricordo, avrei perfino avuto piacere che si facesse male e la smettesse di torturarci.
Perché di tortura vera e propria si trattava, morale e fisica.
Certo, erano tempi diversi; non c'era il permissivismo di adesso, i bambini non si erano ancora impossessati del potere. Correva l'idea che quando un bimbo faceva i capricci, un paio di sculaccioni avrebbero sistemato rapidamente le cose. Noi adesso sappiamo che non è così, o, almeno, non è così semplice. Ad ogni modo le signorine (suore laiche?), una almeno, la mia, pensavano che più efficaci degli sculaccioni fossero le zoccolate sulla testa. Ma non è possibile, vien da dire! Eppure è proprio così. Il periodo di maggior crudeltà si manifestava nel primo pomeriggio. Dopo l'abominevole pranzo a base di brodaglie, nelle quali, tra fagioli sfatti, sedano nauseabondo, poltiglia di carote insapori, e altre verdure speciali per favorire il vomito, nuotavano sfatti i "zifulòt", dovevamo dormire. E se uno non aveva sonno? Io poi che quand'ero a casa cominciavo a giocare proprio a quell'ora lì! Niente, ero di nuovo alle prese con un'usanza che giudicavo insopportabile. Nel letto dell'ostile camerata, stavo steso a pancia in giù, con gli occhi completamente aperti ed il tempo non passava mai. La signorina ispezionava le camerate, e guai a chi non dormiva, o fingeva di farlo con insufficiente abilità. Quando se n'accorgeva, il battere degli zoccoli sul pavimento cessava, e si avvertivano alcuni colpi sordi ed un gemito: erano gli zoccoli che si abbattevano sul cranio di una piccola vittima, incapace di assopirsi in quel silenzio caldo ed innaturale. Quando arrivava vicino al mio letto, nonostante i miei sforzi per fingere di dormire, i colpi sordi diventavano dolorosi. Roba da ucciderla.
Noi bambini non avevamo la forza di ribellarci anche perché nella cultura dell'epoca i più grandi avevano sempre ragione. Il '68 era lontano. Più vicini i tempi delle SS. Ora le cose si sono ribaltate e sono i vecchi ad avere sempre torto.
Le zoccolate in testa, sono il cardine della mia vita in colonia.
C'era poi il rito della scrittura della letterina a casa, che avveniva settimanalmente, dopo la solita vomitevole cena. Fisicamente non era doloroso, ma la sua falsità suggellava la quotidiana crudeltà.
La signorina ci dettava: "...io qui mi trovo bene, il mare è bello, il sole è caldo, la sabbia divertente, il mangiare ottimo, le signorine tanto buone!". Per fortuna potevo concludere con le parole che scrivevo con il cuore palpitante mentre le lacrime mi rigavano il viso, chino sulle frasi bugiarde che le precedevano: "Ciao mamma, ho tanta voglia di rivederti!".
C'erano anche le passeggiate del mattino, nelle quali, per fortuna, non succedeva nulla di drammatico. Ad ogni modo, anche in quel caso, non dico la felicità, ma anche la serenità, mi stavano alla larga. La striscia di bambini che ondeggiava senza interesse tra le strade di Cesenatico, era per me un vincolo di prigionia. Cosa vedevo durante quelle passeggiate? Nulla evidentemente perché nulla ricordo. E' come se avessi camminato nel vuoto, o in mezzo alle nubi, o accecato dalla luce. Ero un segmento, senza occhi e senza orecchie, di un serpente intontito, portato a spasso da domatrici prive del gusto della vita, assolutamente incapaci di capire ed amare un bambino.
Potrei sforzarmi di far riemergere altri episodi, ma sarebbero più o meno dello stesso tipo, perché l'orchestra che suonava la musica era ogni giorno la stessa e sempre lo stesso il teatro che l'ospitava.
Arrivò finalmente il giorno del
Ritorno
Di quel viaggio non ricordo quasi nulla, ma la meta cui stavolta puntava la corriera blu era così desiderata che, qualunque cosa fosse successa, vomiti, soffocamenti, torture psicologiche, non poteva scalfire la forza che mi sorreggeva per assaporare il momento in cui avrei di posato i piedi sulla terra che mi aveva visto nascere.
Alcuni dubbi, però, mi tormentavano.
C'era ancora il mio paese?
Era proprio vero che la corriera stava per riportarmi a casa?
Avevo buoni motivi per essere certo di quanto mi era stato detto?
Beh, vissi quelle ore del viaggio tra queste domande dalla risposta incerta, ma la speranza che non si trattasse di un imbroglio, aumentava via via che riconoscevo qualche particolare che ricordavo dall'andata.
Finché, ad un certo punto, la corriera si fermò e qualcuno disse: "Siamo arrivati".
Un brivido mi guizzò lungo la spina dorsale, e, con il cuore in tumulto, percorsi il corridoio in apnea per precipitarmi il più presto possibile alla porta d'uscita.
Sceso dal gradino della corriera, mi guardai intorno ruotando la testa così velocemente, che vidi un grigio confuso che m'impedì di riconoscere il volto che cercavo. Stavo quasi per cadere nella disperazione, quando i miei occhi misero a fuoco, nella signora che mi veniva incontro, il sorriso di mamma.
Fu a quel punto che crollai, stavolta però preda di una sconfinata felicità, in un pianto dirotto.
Non c'era nulla da fare, sentivo come una pompa interna che doveva svuotare il serbatoio di lacrime riempito nel soggiorno marino.
Mamma mi strinse tra le braccia, un po' sorpresa per quell'incontenibile pianto. Quando mi chiese cosa avessi, tra le lacrime liberatorie le diedi la mia spiegazione:
"Quand ch'a t'ho vista, a m' son santèst déntar come un muturìn e a 'n son più sta bon ad lassàr lì ad piànzar!"1.
Mamma allora capì profondamente tutto, ed io in colonia non ci andai mai più.
Conclusione
La colonia ha contribuito, penso in discreta parte, a definire oltre ad una mia visione filosofica del mondo, il mio rapporto con molte strutture sociali.
Per semplificare riporto una delle frasi con cui a volte, scherzando ed esagerando certo, ma non poi così tanto, illustro ai miei allievi una componente del mio pensiero:
"Siate vigili, guardatevi sempre da asili, caserme, scuole, chiese che hanno lo scopo di forgiare il carattere di un insieme di individui.
Quelle strutture non forgiano un bel nulla.
Anzi..."
1 Quando ti ho visto, ho sentito dentro come motorino e non sono più riuscito a smettere di piangere
Libro
il racconto è inserito anche in questo libro cartaceo