Avevo sedici anni quando per la prima volta ho sentito parlare del Vajont. Una casualità, decisamente una casualità. Stavamo organizzando la festa di capodanno a casa di una amica e solo allora mi sono accorto che la sua casa aveva l'ingresso carraio in una via trasversale, una stradina a fondo chiuso, la via Vittime del Vajont. Ricordo che allora quel nome, Vajont, con la i-greca, mi suonava molto come nome estero e, ad una mia interrogazione, qualche amico più grande mi disse che le vittime erano una popolazione deceduta a causa di un problema con una diga. La mia curiosità di teen-ager fu allora saziata e non mi preoccupai più di "quelle vittime" da me considerate in Paese straniero.
Passarono alcuni anni e quell'amico che mi diede la prima risposta sul Vajont faceva consegne in stile pony-express per l'azienda presso la quale lavorava, portando ai clienti sparsi qua e là sul territorio nazionale gli articoli prodotti dalla stessa azienda per i quali i clienti non potevano certo aspettare, ma bramavano per avere i materiali entro breve, pena il blocco delle produzioni. Mauro, questo amico, mi disse "sono andato a consegnare materiale in Friuli e sono passato dal Vajont". Vajont, Vajont. Dopo pochi anni quel nome mi ricordava una tragedia ma chiesi lumi e mi spiegò che anni addietro una disgrazia connessa ad una diga uccise delle persone. Il Vajont... gli anni per me passavano ed il Vajont, ormai passato dall'estero al Friuli, dopo essermi in parte documentato sulla vicenda, era diventato per me soltanto un nome, un episodio di una vita da me non vissuta ed adagiato in un cassetto impolverato della mia memoria, finché...
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"La nostra sede principale è in provincia di Belluno"
Nel 2012, dopo una serie di vicissitudini professionali, venivo assunto da una multinazionale britannica, con diverse sedi sparse in tutto il mondo. In Italia, la divisione presso la quale sarei andato ad operare, aveva appena aperto una sede a nord di Milano, sede nella quale sostenni i due colloqui pre-assunzione. La telefonata giunse un po' inaspettata: "La assumiamo", mi disse la collega dell'HR "ma la sede principale della divisione nella quale Lei andrà ad operare è in provincia di Belluno. Dovrà periodicamente recarsi là per confrontarsi con i suoi responsabili ed i suoi colleghi. Se questo aspetto non le crea problemi, allora benvenuto a bordo!". Accettai e ne fui (e ne sono) molto contento. Dopo la prime due settimane trascorse a Milano, eccomi alla "prova-trasferta": "Paolo, ti aspettiamo settimana prossima, qui a Belluno. Starai qui 4 giorni". Bene, organizzo la trasferta, prenoto l'auto aziendale e al lunedì mattima sono già a destinazione. La prima giornata passa tranquilla, alla sera giro un po' per Belluno. Il giorno seguente, il mio capo mi manda una email con la quale mi dice che, a termine dell'orario di ufficio, dato che la giornata era limpida, un giro in Val Zoldana mi avrebbe permesso di ammirare le bellezze delle Dolomiti. Così, mi suggerisce un percorso che da Belluno porta a nord, verso Longarone e, una volta arrivato lì, svoltare a sinistra e su per la strada fino al passo di Staulanza.
Per sicurezza, imposto il percorso anche con il navigatore ma la strada era davvero semplice! Dopo qualche chilometro ecco un cartello: "Cimitero monumentale Vajont". Vajont, VAJONT! Ma dai: sono a due passi dal Vajont! Arrivo a Longarone e vedo i cartelli: "Diga del Vajont". Sono cartelli a sfondo marroncino, quindi turistici. Senz'altro la meta indicata si trova a poca distanza. Ma dopo poco ecco profilarsi un altro segnale che riporta le indicazioni, a sinistra, per la Val Zoldana. "Alla rotonda, prendere la terza uscita" dice il mio navigatore. Bene, svolto a sinistra e mi concentro sulla strada. Ma quel segnale, "Diga del Vajont", mi ha messo addosso una tale curiosità che... Il terzo giorno, con negli occhi il Pelmetto, una splendida cima delle Dolomiti che sovrasta il passo di Staulanza, mi presento in ufficio. A pranzo con i colleghi racconto della mia gita serale del giorno prima e cito il Vajont. "Per andare al Vajont, anziché svoltare per la Val Zoldana dovevi proseguire ancora un poco e poi svoltare a destra", mi dice Michele. A questo punto divento serio e chiedo: "Mi raccontate del Vajont?"
La tragedia del Vajont
La storia del Vajont è molto complessa e, per chi ha voglia di approfondire la tematica, si accorgerà che le basi di tutta la vicenda poggiano addirittura negli anni '30 del secolo XX. La storia ha inizio quando la SADE (Società Adriatica Di Elettricità) decide di realizzare una diga, la più alta del mondo all'epoca, nella valle del fiume Vajont, affluente destro del fiume Piave. Il Vajont, poco più che un torrente, scorre in una valle stretta ed alta, luogo ottimale per realizzare uno sbarramento artificiale e raccogliere l'acqua che va a servire il bacino idroelettrico della provincia di Belluno, dal Cadore fino all'Alpago. L'acqua, raccolta in bacini via via posti ad altezze diverse, va ad alimentare le centrali idroelettriche per poi essere consegnata alla pianura per usi agricoli. La diga del Vajont rappresentava quindi una vera opportunità in tal senso. I dati dell'impianto sono impressionanti: doppio arco in calcestruzzo, altezza di 263m per una portata complessiva di 168 milioni di metri cubi di acqua: una vera e propria banca dell'acqua! La diga poggia i suoi fianchi all'uscita della valle che il torrente Vajont si è scavato nei secoli per raggiungere il Piave; nel punto in cui è stata costruita, a destra e a sinistra del lago i monti Stanca e Toc rappresentano i due sbarramenti naturali ai fianchi del lago. Il monte Toc è un monte instabile, con una morfologia geologica decisamente inadatta per sostenere un invaso di tali proporzioni. Durante i collaudi per la verifica della tenuta della diga, l'invaso fu riempito e svuotato a più riprese per saggiare la tenuta della diga. Forti scosse, simili ad un terremoto, venivano avvertite dalla popolazione e registrate dagli strumenti, quando la montagna non riusciva a rimanere in posizione ed iniziava i suoi spostamenti verso il lago. L'acqua, penetrando nel fianco del monte Toc, ne stava impregnando la terra ed i tecnici (ed anche la popolazione) si accorsero di un fronte franoso di circa 2.5 km a rischio stabilità con la possibilità, non tanto remota, di precipitare nel lago, con conseguenze disastrose.
9 ottobre 1963
Ed alla fine l'irreparabile accadde: alle 22.39 della sera del 9 ottobre 1963, una poderosa massa di terra e detriti si staccò dal monte Toc, causando una frana di 200 milioni di metri cubi di roccia lunga 2.5 km. La frana si schiantò a 90km/h nel lago sottostante sollevando due gigantesche onde d'acqua alte circa 250m ciascuna. Una di esse punto a monte del lago sfiorando i comuni di Erto e Casso causando pochissimi danni ed un limitato numero di vittime (ma non per questo da dimenticare!); l'altra scavalcò la diga, distruggendone soltanto la strada carrozzabile (costruita sulla sua sommità) ed il centro di comando e controllo, per poi correre lungo l'orrido in direzione Longarone.
Si formò una bolla d'aria che letteralmente esplose provocando la vaporizzazione dei corpi, una vera e propria esplosione paragonabile, per effetti provocati dall'aria, ad un paio di atomiche del tipo di Hiroshima. Ma quello che l'aria non fece, fu completato dall'acqua che piombò dopo soli 4 minuti, sull'abitato di Longarone che fu letteramente spazzato via. Delle case rimase solo il pavimento, la furia dell'acqua non risparmiò nè uomini nè animali. Il Piave, nero come non lo si era mai visto, trascinò cose e cadaveri a valle e molti corpi furono recuperati anche a San Donà di Piave, 100 km più a valle. Ci furono 2000 vittime, la maggior parte abitanti di Longarone e delle sue frazioni. Il dato che colpisce e che aumenta la stretta al cuore è il numero di bambini deceduti: 470. Un quinto delle vittime non aveva ancora 15 anni e una intera generazione è stata spazzata via in pochi istanti. A ridosso della diga, lungo il fronte della frana, una staccionata è stata coperta con delle bandierine colorate riportanti i nomi dei bambini morti nella tragedia. Quelli non ancora nati sono stati rappresentati con teli bianchi.
Ieri e oggi
La diga ed il lago, nel 1962, apparivano, come in foto, nel loro pieno splendore. Oggi del lago resta un'appendice nella direzione rivolta verso il Friuli, mentre a ridosso della diga il monte Toc ha occupato lo spazio precedentemente ocupato dai 50 milioni di metri cubi d'acqua che sono usciti dal lago. L'invaso è pieno di terra.
Salendo verso Casso si ha modo di vedere il fronte franoso a forma di M che si è sganciato dal pendio.
In conclusione
La diga del Vajont non entrò mai in servizio: il paradosso è che la spinta alla quale fu sottoposta fu di molte volte superiore a quella massima ammessa per poter dichiarare che lo sbarramento fosse da ritenere sicuro. Insomma, il collaudo vero e proprio fu quello del disastro. La diga tenne e, a distanza di 50 anni, è ancora lì, maestosa. La Storia non si cancella, non è possibile. Dopo cinquant'anni una vicenda come questa non può e non deve essere dimenticata, per rispetto verso chi non c'è più. Persone più autorevoli di me hanno scritto e documentato la vicenda legata al Vajont, per questo rimando agli approfondimenti indicati in coda a questo articolo.
Io ci sono stato nel 2012, ci sono voluto tornare nel 2013 e ho capito che sotto quella frana c'è molto dolore, benché non riesca nemmeno ad immaginare quanto! Chi passa da quelle parti si rechi a visitare quei Luoghi feriti che possono aiutare a capire molte cose.
L'ultima domenica di settembre, con la collaborazione dell'ENEL (proprietaria dell'impianto, dal 1962 a seguito del programma di nazionalizzazione della rete elettrica Nazionale), è possibile camminare lungo i percorsi della memoria che da Longarone portano su al Vajont lungo i sentieri, le vie e le gallerie di accesso alla diga.