Qualcuno ha scritto nel forum, riferendosi a me ed a come impiego il tempo ora che sono in pensione, dopo che avevo risposto con un po' di ironia (troppa forse? inopportuna? inesistente? non so..) ad un suo post: "mi rendo conto che è brutto non avere un ***** da fare"1 .
In effetti può esistere il problema; ripensando un po' al mio mestiere, ai trent'anni volati, di cui mi resta....cosa? (pensavo qualcosa di utile per quanto faccio ora, ma... sembra di no), e sfogliando il mio computer, ho trovato quanto avevo scritto quel giorno, più di undici anni fa.
....... 10 giugno 2006
Ringrazio per prima cosa tutti per la “festa” organizzata in questa occasione. Anche se per carattere l’avrei evitata, devo dire, onestamente, che mi ha fatto piacere.
E’difficile in mezzo al cumulo di pensieri e sensazioni, costruire e scegliere frasi in grado di descriverle.
Io poi non ho alcuna dimestichezza con il parlare di argomenti diversi dall’elettrotecnica con un pubblico diverso da quello a cui ho fatto l’abitudine, anche se, a dire il vero, con quel pubblico era ultimamente più facile parlare di argomenti diversi dall’elettrotecnica.
Ad ogni modo cercherò di formularne qualcuna.
Sto lasciando il mestiere che ho svolto per più di trent’anni e, dopo le lamentele, le insoddisfazioni, e le frustrazioni che l’hanno accompagnato, non posso non sentire un senso di liberazione.
Infatti non sarò più costretto a compiti sempre meno gratificanti (per usare una litote).
Non avrò alcun rimpianto dei collegi docenti, che subivo come il maltempo, dove più le discussioni erano accese, più mi apparivano sproporzionate e ridicole.
Non dovrò più sottopormi alla liturgia dei consigli di classe, ripetendo ed ascoltando frasi e parole identiche da decenni.
Non dovrò più entrare il mattino presto in aule frequentate da un pubblico quasi completamente indifferente ai contenuti della mia materia.
Non dovrò più urlare “state zitti, state fermi”; dirigere il traffico dei “posso uscire”; discutere e litigare con ragazzi che hanno poco più di un quarto della mia età.
Non avrò più la sensazione sgradevole delle parole buttate al vento; non proverò più il senso di colpa per l’incapacità di riuscire a suscitare interesse per la lezione.
Ma tutto ha un prezzo, anche la liberazione da questa nutrita serie di disagi. Per questo so che proverò nostalgia del mestiere più importante della mia vita.
Non posso infatti impedirmi di pensare che si chiude un altro periodo gettando altro futuro alle mie spalle.
Inevitabilmente si impone un bilancio, e ciò che pesa di più è quanto non sono riuscito a fare, ora che si interrompe la speranza di poter migliorare.
Avrò nostalgia dei colleghi docenti (di questi con il “gh” sì); dello scambio di opinioni che mi permetteva di ammirare in alcuni una tenace convinzione di poter essere utili, in altri di cogliere un’insoddisfazione che mi confortava, perché leniva la mia facendomi sorridere di entrambe.
Non potrò più, dopo aver detto provocatoriamente in aula: “Ma cosa fa in classe la vostra insegnante di matematica”, incrociare nei corridoi Maria Antonietta e farle sadicamente notare che i suoi ragazzi, di cui si meraviglia non sappiano calcolare una derivata notevole od un elementare integrale per parti, non sanno in realtà nemmeno invertire una formula.
Mi mancherà infine la pausa liberatoria, nelle ore buche, per un caffè in buona compagnia (specie quando i colleghi erano colleghe. Sono sicuro che Roberto non se ne avrà a male, per ragioni di simmetria)
Mi mancherà anche la felicità del ragazzo il cui sguardo si illumina perché, stando attento per una volta ad una lezione, ha capito un concetto elettrico.
Non potrò rivedere la sua gioia quasi esplosiva per un riconoscimento concreto in un compito od una interrogazione, che gli fa capire che impegnandosi può farcela e che il prof. non ce l’ha con lui.
Molti dei nostri ragazzi riescono a fare di tutto per irritarci, riempirci di delusioni e farci sentire vano il nostro lavoro. Ma ce ne sono anche capaci di un gesto o di una parola che ti fanno pensare che non è proprio così.
Come nell’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola.
Dopo la foto ricordo, quando tutti si stavano allontanando ed io guardavo sui banchi le patatine rimaste e le bottiglie vuote di Coca Cola, seduto in silenzio alla cattedra ad aspettare il suono dell’ultima campana, un ragazzo mi si avvicina, e vincendo imbarazzo e timidezza, sente il bisogno di dirmi:
“Prof. Mi dispiace che abbia deciso così. Io mi sono trovato bene con lei quest’anno”.
Lo guardo mentre gli stringo la mano per il saluto, e vedo in lui il ragazzo di 17 anni che è.
Quando Marco e Nicolò, i miei figli, avevano quell’età erano dei ragazzini cui potevo e dovevo essere utile.
Così dai loro bisogni potevo trarre l’energia che dava senso alla mia vita.
E’ proprio l’impossibilità di perpetuare nel tempo quella sensazione per qualcuno che ha sempre 17 anni, il vuoto che, credo,
si farà sentire più intensamente.