Non sono (più) uno che scrive molto: in teoria dovrei curare un blog, che però langue da tempo ed è già fin troppo pieno di testi lasciati a metà per aver voglia di aggiungerne un altro che rischia di fare la stessa fine. Da una parte mi manca il tempo per completarli (anche da disoccupato, come sono al momento in cui scrivo) e dall'altra mi manca lo stimolo di un dialogo "vero" con chi mi legge (scrivere per sè stessi è molto utile alle volte perché aiuta a riordinare le idee... purché alla fine non sia proprio SOLO scrivere per sé stessi!).
Ho deciso di riprovarci, almeno qui su EY, dopo aver costatato per l'ennesima volta che le famose "autostrade dell'informazione" che dovrebbero essere veicolate da internet portano a tutto TRANNE che a imparare e capire veramente le cose. Autostrade non verso il nulla, questo no, ma verso cose per cui un sentiero da bicicletta basta e avanza, altro che "autostrade". E per giunta, in questo caso, su un argomento, gli amplificatori audio, su cui, pur non essendo un "guru" (anzi!), credo di poter dire qualcosa.
Cosa troverete e cosa NON troverete
Nel testo che segue troverete giusto quel che è promesso dal titolo: lo sviluppo di un piccolo amplificatore audio, di potenza modesta (quella consentita da una tensione di alimentazione di 12-15 volt al massimo), la cui qualità principale sarà quella di funzionare lasciando capire come e perché funziona. Niente di più. Non troverete quindi amplificatori di potenza "seria" (e lo è già un amplificatore da 10-15 watt, che ci crediate o no!) che per essere dimensionati e realizzati con successo richiedono un'esperienza decisamente più solida e consistente di quella di un principiante (che, restando tale, può solo assemblare kit già precucinati da altri; un'esperienza sicuramente divertente, pure formativa entro certi limiti ma che per quanto attiene il "capire" cosa si sta facendo non porta molto lontano). Per arrivare a questi dovrete proseguire oltre, camminando ancora per un discreto pezzo di strada.
In questo articolo verrà proposto e dimensionato un amplificatore a transistori bipolari, semplice ma allo stesso tempo abbastanza completo, che potrà essere utilizzato per sonorizzare una cuffia o un piccolo altoparlante. A scanso di malintesi e di aspettative mal riposte, preciso comunque che un tal genere di amplificatore è al giorno d'oggi completamente anacronistico e può essere felicemente rimpiazzato da un integrato che faccia lo stesso lavoro, con minor spesa e pure miglior qualità risultante; pertanto il valore intrinseco del circuito, al di là dell'aspetto ludico e didattico, è praticamente nullo.
Disclaimer 1 – Nel corso del testo ho fatto il possibile, compatibilmente con la mia pigrizia, per non scrivere le unità di misura in maniera troppo "casual" e di mantenere almeno all'interno di questo testo, una certa coerenza di stile, anche negli eventuali errori. Tuttavia, se avete dubbi, chiariteveli consultando direttamente i testi dove vengono definiti i dettagli relativi, segnalandomi all'occorrenza le papere più grosse da sistemare. Grazie! :-)
Disclaimer 2 – In matematica sono uno molto duro di cranio e poco tollerante verso i passaggi non esplicitati e non spiegati nei calcoli. Siccome questo testo è diretto essenzialmente ai semplicioni "pane e prosciutto" come me, ho ritenuto che esporre tali passaggi chiaramente, anche quando appaiono ovvii e noiosi ai più avvezzi alle formule, fosse la cosa migliore. A chi mi seguirà nel testo auguro solo di non annoiarsi e di avere una memoria per la matematica migliore della mia in quanto questa, solitamente, se una volta finita di servirmi mi resta in testa ancora una settimana, è un record!
Schema di principio – Da capire ma da non usare!
Qui sopra, ridotto all'osso che più osso non si può, è lo schema di un piccolo amplificatore che, sebbene in linea di principio funziona, in pratica lascia talmente a desiderare che fa quasi venir voglia di lasciar perdere e accotentarsi di uno dei tanti integratini prodotti allo scopo (dal sempreverde LM386 al TBA820, per arrivare al TDA2822, che è pure a due canali). Esso ci è però utile a capire il principio di funzionamento della stragrandissima parte degli amplificatori audio di potenza a transistori realizzati nell'ultimo mezzo secolo, prima che cominciassero a prendere piede gli amplificatori a commutazione.
La sua struttura è basata su due stadi: un amplificatore di tensione (T1) ad emettitore comune, seguito da un inseguitore di tensione a collettore comune (T2 e T3) che amplifica in corrente il segnale di T1. Il suo pregio maggiore, rispetto agli schemi di amplificatori a transistori che lo hanno storicamente preceduto, è quello di non richiedere alcun tipo di trasformatore in entrata e/o in uscita; il suo capostipite storico, un amplificatore il cui progetto (autore H.C. Lin) venne pubblicato sulla rivista "Electronics" nel settembre del 1956, rappresentò un notevole passo avanti rispetto al passato: per la prima volta i transistori venivano impiegati in un circuito pensato per trarre il maggior profitto possibile dalla loro natura e dalle loro caratteristiche, segnando un netto distacco dalle cosuetudini che si erano limitate fino a quel momento a "tradurre in transistorese" (soprattutto scalando di uno-due ordini di grandezza le impedenze di lavoro) circuiti nati ed evolutisi intorno alle valvole(*).
(*) Va comunque considerato che nel 1956 erano trascorsi appena otto-nove anni dalla scoperta del transistor e il fatto di essere già arrivati a un amplificatore come quello di H.C. Lin, testimonia ancora una volta quanto le idee e la creatività umana possano essere ben più avanti della tecnologia disponibile per tradurle in pratica.
Il primo transistor (T1) è un comune amplificatore di tensione a emettitore comune che, ridotto ai minimi termini e pure abbastanza tirato per il collo - quando schiatta canta come un cigno! ;-) - è trattabile e dimensionabile come qualsiasi altro amplificatore dello stesso tipo... fatto salvo qualche "però" che adesso vedremo in dettaglio. Il primo "però" che distingue radicalmente questo stadio da altri analoghi studiati in altri casi è che, a causa del suo funzionamento, per esso non valgono più le comode approssimazioni adottate per gli amplificatori di piccolo segnale: dovendo fornire iin uscita una tensione picco-picco quasi(*) pari alla tensione di alimentazione esso è già a tutti gli effetti un amplificatore di grande segnale (o di piccola potenza, come si preferisce!).
(*) "Quasi" perchè dalla tensione di alimentazione vanno sottratte le tensioni di polarizzazione - le Vbe - dei transistori di uscita T2 e T3, la Vce(sat) di T1 insieme ad alcune cadute resistive - Re1, Re2 e un residuo su Rc che sussiste anche con T1 in interdizione - tutte sottrazioni che nell'insieme tolgono, nel migliore dei casi, almeno 2,5 volt dalla tensione di alimentazione disponibile - una "tassa" piuttosto importante se tale tensione, come è il nostro caso, è piuttosto bassa.
In questo circuito, come in tutti gli altri che da esso derivano, la tensione di alimentazione (singola nel nostro caso ma spesso duale in versioni più potenti) definisce, sottratte le cadute sopra accennate e definita l'mpedenza del carico di lavoro (l'altoparlante!), la massima potenza erogabile dal circuito (che calcoleremo tra poco). I contributi sottratti dalla tensione di alimentazione sono di due generi: 1) fissi che dipendono dalle giunzioni da polarizzare direttamente(**) presenti nello stadio di uscita e 2) variabili che dipendono dalle variazioni di Vbe (proporzionali alle variazioni del logaritmo delle variazioni di corrente di uscita) e dalle cadute resistive che, in un modo o nell'altro, si trovano in serie all'uscita (soprattutto i resistori di emettitore dei finali).
(**) Nel periodo compreso tra il 1980 e il 2000, sotto la pressione di esigenze più commerciali che tecniche, sono stati alle volte usati negli stadi di uscita audio anche dei MOS di potenza in cui, al posto delle Vbe delle giunzioni, vanno conteggiate le tensioni di soglia Vgs. Queste, sfortunamente per chi li ha voluti usare, sono sempre risultate, per i tipi adatti a funzionare come stadi di uscita lineari, piuttosto elevate, tali da scoraggiarne rapidamente l'uso. Oggi i MOS vengono usati quasi esclusivamente nei circuiti a commutazione o come amplificatori di potenza a radiofrequenza, dove hanno veramente dato il meglio di sé e hanno per questo quasi totalmente soppiantato i transistori bipolari .
I transistori di uscita T2 e T3 sono i veri e propri "muscoli" che devono fornire al segnale prodotto da T1 sul suo carico Rc, la corrente per alimentare il carico di uscita (altoparlante o cuffia); a loro, nonostante possa sembrare l'opposto, viene richiesto dal punto di vista elettrico molto meno di quanto non si chieda all'amplificatore di tensione T1: sostazialmente una buona capacità di dissipare potenza e di fornire le correnti richieste dal carico conservando anche ai loro livelli più elevati un guadagno di corrente minimo (beta) il più sostenuto possibile senza per questo rischiare di incappare in fenomeni di "second breakdown"(*) che, riducendo la massima potenza dissipabile a una frazione di quella che nominalmente possono dissipare, causano spesso dipartite "inspiegabili" degli stadi di uscita anche in condizioni di lavoro apparentemente "tranquille".
(*) Un fenomeno distruttivo peculiare ai transistori bipolari che si verifica quando la dissipazione termica, pur contenuta nei limiti nominali del transistor che si sta usando, avviene a tensioni di collettore relativamente elevate, i cui limiti superiori vengono erosi e ribassati dall'alta temperatura di giunzione e dalle alte correnti a cui si ritrovano a lavorare contemporaneamente. Contrariamente a quanto si può pensare a prima vista, è comunque un fenomeno essenzialmente elettrico e non termico.
A parte questo, e contrariamente a quanto credono tanti appassionati, ai transistori di uscita non è richiesto di avere qualità particolari rispetto ai transistori di potenza destinati ad altri usi e in effetti non le hanno mai realmente avute. Non solo ma quando le si sono cercate e trovate (a costi salati: realizzare transistori "senza compromessi" è molto costoso!) hanno avuto sul risultato qualitativo finale un peso minimo, di fatto irrilevante: i finali sono i "muscoli" degli amplificatori ma la "mente" che assicura il livello qualitativo di un amplificatore sta tutta nei circuiti di segnale a monte dei suoi finali.
Qualche conto per rendersi conto
Prima ho detto che l'amplificatore di cui stiamo parlando, rappresentato nel primo schema di questo articolo, lascia parecchio a desiderare; ora vediamo di capire il perché. Partiamo anzitutto dalla massima potenza ottenibile con 12 volt di alimentazione e con un altoparlante da 4 ohm.
In teoria, se non vi fossero altri problemi, con una tensione di alimentazione simile è possibile ricavare:
(potenza media, popolanamente detta anche "rms", termine che ahimè, riferito a una potenza, non vuol dire niente!)
In un circuito reale questa potenza sarebbe ottenibile solo innalzando la tensione di alimentazione a 15-16 volt stabilizzati. Con soli 12 volt di alimentazione possiamo invece aspettarci una uscita massima di 9 volt picco-picco che, utilizzando la stessa formuletta di prima, ci porta ad avere:
Cioè un bel po' di meno (dato peraltro ottimistico e conseguibile solo sopprimendo le resistenze Re di emettitore sui finali, passo decisamente sconsigliabile).
Prendendo questa potenza di uscita per buona, possiamo dedurre la corrente di uscita richiesta ai finali, che vale:
Questa corrente di picco è una botta piuttosto sorprendente per un amplificatore apparentemente così modesto... ma è il prezzo richiesto dal pilotaggio diretto degli altoparlanti: alla loro bobina non gliene importa un tubo della tensione di uscita, per muoversi vogliono corrente! E ne vogliono anche relativamente tanta.
Con questo parametro possiamo già metterci in cerca dei transistori da candidare a finali dl nostro amplificatore. Anche non dovendo chieder loro prestazioni da campionato (1,5 ampere massimi di corrente di collettore e circa 2 watt a testa di dissipazione termica), sono già dei transistori di media potenza che, pur non rientrando ancora nella famiglia dei finali "doc" non sono più nemmeno dei transistori di segnale; e questo ha le sue brave ripercussioni, soprattutto rispetto alla necessità di trovare un transistor che abbia un buon beta anche ai picchi massimi di corrente richiesti dal carico connesso all'uscita.
Transistor realmente buoni per il nostro scopo non ne sono rimasti molti ma tra loro vi è almeno una buona coppia complementare - la BD435 (NPN) e BD436 (PNP) - che si trova ancora in giro presso i soliti sfornatutto (ST, Fairchild e ONSemi). È una coppia con una Vce(sat) molto bassa che assicura una tenuta del beta a un buon livello (40-50 minimo) anche alla Vce di 1 volt, cosa questa abbastanza rara nelle specifiche dei datasheet, dove mediamente la Vce minima per i transistori di piccola e media potenza a cui viene specficato il beta minimo non scende sotto i 4 volt o, in casi più rari, i 2 volt.
Il beta minimo di questi transistori a 1 ampere di Ic (così come estrapolabile dal datasheet) vale circa 70, valore che rimanda a una corrente di base di circa 16-17 mA necessaria per pilotare i finali alla piena potenza di uscita. Non si tratta di una corrente esagerata ma è comunque già sufficiente a sconsigliare un'alimentazione a batterie (a meno che non si tratti di una batteria d'automobile!).
Vedremo ora con qualche semplice conto, come già una corrente tutto sommato modesta come quella appena trovata rappresenti già un "problema" per T1, soprattutto nel circuito finora proposto, che proprio qui rivela la sua fondamentale inadeguatezza. Per comprenderlo dobbiamo fare un ulteriore approndimento di esame del funzionamento del circuito relativamente proprio all'amplificatore di tensione T1.
Nello schema si vede che il collettore di T1 riceve la sua corrente di lavoro attraverso la resistenza Rc che, sfortunatamente per il nostro circuito, è anche quella che passa la corrente alla base di T2 (NPN di uscita) quando questo è al suo massimo valore di tensione di uscita. In questo stato di cose infatti, mentre ormai T1 è interdetto, attraverso Rc deve COMUNQUE passare la massima corrente richiesta dalla base di T2 (che vale proprio i già prima trovati 16-17 mA) la quale, in conseguenza della legge di Ohm, genererà su Rc una inevitabile caduta di tensione che, andandosi a sottrarre alla tensione di uscita, dovrà essere pertanto ridotta ai minimi termini, sotto pena di incorrere altrimenti in una drastica diminuzione della massima potenza erogata. Questa riduzione ai minimi termini si ottiene soltanto riducendo il valore di Rc, fatto che, come vedremo ora, conduce a un aumento disastroso della corrente di riposo di T1
Supponiamo infatti di voler contenere la massima caduta su Rc generata dalla corrente richiesta dalla base di T2 a un valore che, per amor di simmetria della tensione del segnale di uscita, sia pari alla Vce(sat) di T1 (che possiamo stimare con una certa tranquillità pari a 0,25 volt). In tali circostanze il valore di Rc non dovrà superare i:
Un valore veramente basso... troppo basso! In assenza di segnale, quando su Rc deve cadere una tensione pari a metà di quella di alimentazione (6 volt), la corrente che vi scorre (che è anche la corrente di collettore di T1) diviene pari a ben... 400 mA! Che conduce a far dissipare a T1 quasi due watt e mezzo in continua a riposo... Una piccola stufetta! Se questi fossero i "vantaggi" di aver abolito il trasformatore di uscita negli amplificatori, questi sarebbe rimasto, nonostante tutte le sue pecche, al suo posto fino al giorno d'oggi e amen a tutti quanti.
L'amen invece lo hanno tirato proprio a questo trasfornatore con gran sollievo di tutti; ciò è dovuto essenzialmente all'introduzione di un piccolo espediente elettronico (il bootstrap) che, nato da un piccolo ma geniale atto di creatività di qualche ignoto ingegnere, si è dimostrata nel tempo una delle "trovate" circuitali più utili di sempre.
Bootstrap
Il circuito che state vedendo, pur funzionalmente identico al precedente, si distingue da questo quanto una bicicletta con camere d'aria e copertoni rispetto a una che monti delle ruote di legno. Pedalare è uguale ma andarci in giro è tutta un'altra storia. È ancora ben lontano dal meglio che si possa desiderare ma intanto, con l'aggiunta del bootstrap (composto dalla rete RC composta da Rboost e Cboost), il circuito è divenuto ora decisamente più fruibile di quanto non fosse prima: se nel circuito precedente a T1 era richiesto di lavorare con una corrente di collettore Ic di 400 mA, in questa variante gli viene richiesta una Ic decisamente più modesta, teoricamente pari alla massima corrente Ib richiesta in base dai finali (i 17 mA trovati nel paragrafo precedente, che per sicurezza dovremmo arrotondare a 20 mA ma che, confidando in un pizzico di fortuna sulle vicissitudini del beta dei finali, possiamo anche ridurre a 15 mA, stressando così un filo meno T1 che comunque, dovendo nel nostro caso dissipare circa un decimo di watt, ha di che sudare!).
Come avviene il miracolo? I modi di spiegarlo sono numerosi e dipendono soprattutto dal modo di vedere il circuito. Quello che preferisco in questo caso è il vedere T1 nel primo circuito costretto di fatto ad alimentare DUE carichi (Rc e le basi dei finali) di cui il primo è improduttivo in quanto il ruolo di Rc è anzitutto quello di polarizzare il collettore di T1, per il quale il carico utile "fruttifero" è costituito soltanto dalle basi dei finali. Da questo punto di vista, il bootstrap del secondo circuito è esattamente l'espediente richiesto per isolare (dinamicamente) Rc, lasciando T1 a vedersela con le sole correnti richieste dalle basi di T2 e T3. La rete "boost" costituisce infatti proprio il circuito "isolatore" che permette di raggiungere lo scopo richiesto. Esaminiamo ora meglio in dettaglio cosa effettivamente succede.
In assenza di segnale il collettore di T1 in pratica vede come carico la somma di Rc e di Rboost che, insieme, devono avere il valore richiesto per assicurare a riposo una corrente di collettore di almeno 15 mA che, a fronte di una caduta di tensione pari a metà della tensione di alimentazione sottratta di una Vbe (6-0,65=5,35 volt), risulta pari a 360 ohm. Questo valore viene poi diviso circa a metà in quanto, poiché Rc ed Rboost vengono viste dal condensatore Cboost in parallelo tra loro, la divisione a metà del valore permette di massimizzare il valore risultante del parallelo e quindi di contenere il valore di Cboost stesso.
Nel nostro caso sono richieste due resistori identici da 180 ohm; ma anche se i due valori dovessero essere solo "circa" uguali non muore nessuno; l'unica accortezza da osservare in tal frangente è quella di assegnare il valore più elevato a Rboost, lasciando a Rc il valore minore (e più avanti ne vedremo il motivo).
Se dal punto di vista statico il circuito di bootstrap (almeno così come lo stiamo usando) non ha molto da dire, questi diventa invece piuttosto interessante quando, in presenza di un segnale variabile da amplificare, il condensatore Cboost entra in gioco a fare la sua parte: accoppiare in alternata l'uscita dei finali alla giunzione delle due resistenze Rc ed Rboost, assicurando così che, in alternata, questo nodo non vari in tensione rispetto all'uscita e si comporti in pratica come una sorta di "galleggiante" elettronico. In tal modo Rboost viene isolato dalle variazioni del segnale e, come se questo non ci fosse, lavora sempre all'incirca alla stessa tensione e (di importanza cruciale) alla stessa corrente che possiede in assenza di segnale.
Questo comportamento, visto dal collettore di T1, equivale a quello di un generatore di corrente, da cui peraltro, in amplificatori con tensioni di alimentazione più elevate (oltre i 20 volt) viene spesso sostituito ottenendo, più o meno con lo stesso numero di componenti, prestazioni migliori (se non altro almeno per il fatto che, a differenza del bootstrap, un generatore di corrente "doc" lavora stabilmente come tale anche in corrente continua).
Nel nostro caso però la tensione di alimentazione è troppo bassa per poterne sacrificare delle quote da dedicare a "migliorie" praticamente ininfluenti sul risultato finale; inoltre il bootstrap, così come lo stiamo usando, consente in virtù del suo stesso funzionamento, di alimentare il collettore di T1, in presenza di segnale, con una tensione di alimentazione maggiorata che, permettendo di pilotare il finale T2 fino a saturarlo, restituisce alla tensione del segnale di uscita un po' di margine in più e quindi anche di potenza in più - Niente di ché... ma con 12 volt di alimentazione NON perdere mezzo volt o anche un intero volt di uscita ha la sua importanza!
Dal punto di vista qualitativo il bootstrap, non essendo un vero generatore di corrente ma soltanto un surrogato che si comporta "come se fosse", mostra rapidamente la corda non appena la frequenza del segnale scende al di sotto del limite entro cui Cboost può essere considerato un ragionevole "bypass" rispetto all'impedenza che gli presenta il parallelo tra Rc e Rboost, ovvero, per quanto ci riguarda (avendo assegnato a entrambe il valore di 180 ohm), 90 ohm di impedenza equivalente.
Solitamente il limite empirico del "ragionevole", in termini di frequenza, si può fissare come quella frequenza il cui periodo uguaglia il valore della costante di tempo che il condensatore Cboost (che è poi nient'altro che un condensatore di accoppiamento!) forma con l'impedenza equivalente (in qualunque modo questa sia composta) che "vede" tra i nodi che accoppia; con questo criterio possiamo, partendo dalla frequenza minima del segnale che intendiamo amplificare "bene", calcolare il valore che dobbiamo assegnare a Cboost. Formulazzando un po':
e la sua inversa che ci interessa molto di più:
(la parte numerica dell'espressione è ovviamente "tagliata" solo su quanto ci interessa trovare nel "nostro" circuito e basta).
Per quel che ci interessa la frequenza minima da amplificare bene possiamo fissarla in 50 Hz, da cui consegue che il nostro Cboost deve valere:
Una frequenza di lavoro ben lontana dal limite di banda classico di una cella RC passa alto, quello a –3 dB che viene fuori dall'arcinota formuletta:
La ragione della distanza tra le due frequenze è dovuta al fatto che Cboost nel nostro circuito, nonostante lo si possa trattare come un condensatore di accoppiamento, nella realtà svolge un ruolo più simile a quello di una batteria tampone flottante che non di un accoppiatore di segnali; pertanto occorre che, rispetto all'impedenza del carico che alimenta, la sua reattanza interna sia la più ridotta possibile anche alla più bassa frequenza di lavoro perché solo in questo modo è possibile assicurare che, grazie a questa "batteria", il circuito non degeneri nella forma del primo schema (senza bootstrap) ricadendo nei suoi problemi(*).
(*) In realtà i problemi, per via del muovo dimensionamento del carico statico di T1 (360 ohm contro 15 ohm) si tramutano in una grave insufficienza di pilotaggio dei transistori di uscita di cui, nel nostro schema, continuerebbe a funzionare il solo PNP (T3), generando lo stesso tipo di distorsione "gracchiante" che si ha nel caso in cui uno dei due finali si interrompa
Cosa "vede" T1: il bootstrap visto da vicino
A questo punto possiamo aggiornare lo schema aggiungendo alcuni valori, facendo poi il punto della situazione.
Qualche nota sui valori assegnati ai componenti di cui non abbiamo ancora parlato. I 2200 microfarad del condensatore di uscita è un valore tipico che in questo caso si adatta bene alla scelta del carico da 4 ohm, per il quale valori minori sarebbero andati un po' stretti. Quasi lo stesso si può dire delle resistenze di emettitore; lavorando con frazioni di ohm, in realtà tutti i valori vanno bene soprattutto perché delle resistenze di emettitore dei finali conta, più che il loro valore, il fatto che che tali resistenze comunque ci siano. Infine come diodi di bias dello stadio finale sono stati scelti gli 1N4001 allo scopo di avere una caduta sufficientemente bassa da contenere al minimo la corrente di riposo dello stadio di uscita senza dover per forza complicarsi la vita con un Vbe Multiplier il cui uso, qui, mi è parso una esagerazione.
Quel che dobbiamo vedere ora in dettaglio è il comportameno del bootstrap quando viene visto da T1 come carico in quanto su di esso, quale che sia il suo valore, viene prodotto l'intero guadagno in tensione (ad anello aperto) del circuito. Intanto vediamo in dettaglio il circuito equivalente di T1 (rete di Giacoletto) per ragionarci un po' su:
Questo circuito (detto anche "rete pigreco" per il modo in cui è spesso disegnato nei libri di testo) è a mio avviso il più utile dei circuiti equivalenti con cui vengono rappresentati i transistori quando vengono usati come amplificatori. Il circuito in sè vale in realtà, con pochi adattamenti (soprattutto di nomenclatura) ai vari casi particolari, anche per gli tripodi attivi più comuni (BJT, FET e triodi) e per una qualsiasi delle tre configurazioni di lavoro possibili (emettitore comune, collettore comune, base comune) e anche per le connessioni composite di uso più generale (darlington e cascode soprattutto) che possono essere visti come dei veri e propri "supertripodi" o supertransistori. Si tratta quindi di un circuito equivalente molto flessibile e potente che permette oltrettutto, al di là delle peculiarità di funzionamento di ciascun dispositivo, di trattarli dal punto di vista circuitale come se si trattasse di varianti di un unico dispositivo (come in effetti sono la maggior parte di essi che funzionano sul principio dell'effetto di campo, in cui vanno inclusi i tubi a vuoto che, pur non essendo a stato solido, sono FET a tutti gli effetti - Nel gruppo la vera eccezione dal punto di vista del principio di funzionamento fisico sono soltanto i transistori bipolari – anche se... ).
Per quanto riguarda i transistori bipolari, i valori dei componenti (virtuali) del circuito equivalente si possono ricavare da una attenta e meditata lettura dei datasheet. Un tempo (ormai molto lontano purtroppo!) buona parte dei produttori più seri e autorevoli pubblicava tra i dati una apposita serie di grafici relativa ai parametri "h" (hybrids) relativi alla connessione ad emettitore comune, da cui, con pochi passaggi, era possibile ricostruire quasi completamente il "circuito" interno di un transistor (dal quale potevano poi successivamente essere ricostruiti, all'occorrenza, anche i parametri h per le altre due connessioni, base comune e collettore comune). I parametri, specificati per tensioni e correnti di lavoro "tipiche" (solitamente 5 volt di Vce e 2 mA di Ic) erano hie (impedenza di ingresso), hfe (guadagno in corrente), hoe (conduttanza di uscita) e hre (tasso di retroazione interna tra base e collettore). Tra questi parametri e i valori del circuito equivalente ci sono alcune relazioni che vengono illustrate e spiegate di seguito:
hie – La misura di questo parametro si effettua, una volta predefinite una tensione e una corrente di lavoro per il collettore, cortocircuitando quest'ultimo per le correnti alternate (AC) e misurando la variazione di corrente assorbita dalla base in risposta a una variazione di tensione che gli viene applicata. In queste condizioni, rispetto al circuito equivalente, hie non è altro che il valore risultante dal parallelo delle resistenze Rbe ed Rbc e, per conoscere il valore di entrambe, basta conoscere, almeno indirettamente, il rapporto che esiste tra loro. Tale informazione ci viene fornita dal parametro hre.
hre – La misura di questo parametro si effettua, anche qui una volta predefinite una tensione e una corrente di lavoro per il collettore, applicando su questi un segnale in AC e misurando sulla base la variazione di tensione risultante (che è una frazione molto piccola del segnale applicato sul collettore). Il rapporto tra queste due tensioni equivale numericamente a quanto ottenibibile applicando il teorema di Thevenin al partitore ccostituito da Rbe ed Rbc, ovvero:
Disponiamo ora di quanto ci serve per ricavare sia Rbe sia Rbc partendo dal fatto, già anticipato, che:
Rbc è quella che vien giù prima in quanto basta dividere Hie per Hre. Infatti:
Ottenere Rbe è altrettanto semplice: basta dividere hie per (1–hre), termine che, sviluppato, genera:
Che è esattamente il termine complementare che ci serve, nella formula con cui abbiamo ricavato Rbc, a ricavare invece Rbe.
Delle due "resistenze" che abbiamo appema trovato occorre spendersi in qualche parola di cautela; mentre Rbc la si può considerare una resistenza reale sia pure di qualità piuttosto andante, lo stesso non si può dire di Rbe, che è in realtà la resistenza dinamica di un diodo in conduzione diretta e la cui linearità vale tanto quanto quella di un diodo. Questo perché Rbe è un fake dietro cui si "nascondono" altri due parametri: il guadagno di corrente Hfe (o beta: i due termini sono spesso usati uno al posto dell'altro nonostante non siano dei veri sinonimi) e la transconduttanza gm. Hie infatti si può ricavare anche come:
Dei due parametri, hfe può essere considerata entro ampi limiti come una costante abbastanza indipendente dalle condizioni di lavoro dei transistori, sia pure di valore molto incerto a causa delle tolleranze intrinseche nel loro processo produttivo; di valore un po' più certo ma ahimè fortemente non lineare è invece gm, che è il vero e proprio "motore" di ogni tripode attivo e ne definisce la capacità di controllare la corrente che lo attraversa e quindi la capacità di guadagnare tensione su un dato carico di lavoro prestabilito.
Il parametro gm ha nei transistori bipolari una peculiarità che li rendono unici rispetto a qualunque altro tripodo amplificatore: il suo valore, a parità di corrente e di temperatura di lavoro, è identico per tutti i bipolari, quali che siano tutte le altre differenze distintive (dimensioni, potenza ecc.) e vale (con giunzione a 27 °C):
in cui:
La transconduttanza di un bipolare aumenta al crescere di Ic e diminuisce al crescere della temperatura di lavoro della giunzione (cosa di cui va tenuto conto in sede di progetto) ma non cambia cambiando il tipo di transistor: questo fa sì che in genere, a meno di problemi particolari (il rumore per esempio), i bipolari concepiti e costruiti per lo stesso genere di applicazioni, siano quasi semore intercambiabili tra di loro senza particolari difficoltà (fatto ormai di importanza basilare visto il continuo restringersi dell'offerta a pochi tipi "universali" di transistor!).
Il comportamento di gm nei bipolare ha anche una conseguenza importante sul livello di amplificazione in tensione che possono fornire in un normale stadio ad emettitore comune e cioè che una volta fissata la tensione di alimentazione, questa definisce univocamente il guadagno disponibile rendendolo indipendente dalla corrente di lavoro e dalla resistenza di carico assegnata al transistor: qualunque combinazione si assegni, a parità di escursione della tensione di uscita, fornirà lo stesso prodotto gmRc, cioè lo stesso guadagno in tensione.
Nel caso nostro di transistor a emettitore comune (T1) alimentato a 12 volt, il massimo guadagno, ottenibile con una Vce di riposo pari esattamente a metà della tensione di riposo, non potrà superare il valore di:
Questo limite può essere incrementato sostanzialmente solo in due modi: 1) diminuendo l'escursione possibile della tensione di uscita rispetto a quella consentita dalla tensione di alimentazione; 2) aumentando con qualche artificio l'impedenza di uscita dinamica vista dal collettore di un bipolare, oltre a quella strettamente consentita da una resistenza. Il primo modo consiste nel ridurre la massima escursione di uscita a una frazione di quella possibile (la metà, un terzo, un quarto...) e sfruttare la parte non usata per aumentare il valore della resistenza di carico, aumentando così il prodotto gmRc disponibile (questo espediente è stato spesso applicato in passato in modo complementare o, per così dire, "guardando dall'altra parte dell'uovo", cioè aumentando la tensione di alimentazione del circuito molto oltre le sue strette necessità). Il secondo modo consiste nel far vedere al circuito di uscita, con vari espedienti, un carico dinamico molto superiore a quello statico. Il bootstrap è giusto uno di questi espedienti messi in campo.
Prima di proseguire oltre occorre spendere qualche parola su due componenti spurii (Rbb ed Re) che non appartengono al cuore attivo del transistor ma sono prodotti invece dalla sua costruzione fisica e variano a seconda del tipo ma anche del produttore. La loro influenza è il più delle volte trascurabile salvo che in un paio di situazioni: 1) Rbb (che rappresenta la resistenza della regione di base esistente tra il contatto ohmico della base e la giunzione base-emettitore vera e propria) definisce nei circuiti a basso rumore il valore minimo del rumore in tensione intrinseco al transistor che si sta usando; 2) Re (che rappresenta la resistenza del contatto ohmico di emettitore) diviene invece importante alle alte correnti di collettore, quando il suo valore – che va da un ohm per i transistori di segnale a 0,05 ohm per i più comuni transistori di potenza da 10-12 A massimi di Ic) supera l'inverso di gm, facendo venir meno la proporzionalità dell'aumento di gm con l'aumento della corrente di collettore. Per avere un'idea dell'influenza di Re si tenga conto che l'inverso di gm si riduce a circa 1 ohm già con 25 mA di collettore e a un decimo di ohm con 250 mA.
L'impedenza di uscita di un emettitore comune – Il parametro hoe
Il guadagno massimo di uno stadio a emettitore comune trovato poc'anzi è da intendersi appunto come un massimo non raggiungibile in pratica; a mettersi in mezzo a rovinar la festa provvede infatti il transistor stesso che possiede una sua propria impedenza di uscita che, a meno di complicazioni circuitali (uso di circuiti cascode), riduce in maniera importante l'impedenza complessiva del circuito di uscita, riducendo di conseguenza, a parità di gm, il guadagno realmente disponibile su di essa.
hoe – Questo parametro rappresenta la somma di due contributi: 1) l'effetto della retroazione attuata dal parametro hre (che abbassa sia l'impedenza del circuito di ingresso sia del circuito di uscita); 2) l'effetto Early, rappresentato da Rce, che modula il parametro hfe, rendendolo dipendente dalla tensione Vce; tale modulazione avviene tramite Rbc che inietta nella base la sua corrente di dispersione che appunto dipende anche dalla tensione esistente tra collettore e base. In prima approssimazione, l'insieme delle due componenti viene definito come:
Il primo dei due termini dipende da gm e quindi, in ultima istanza dalla corrente di collettore Ic, con cui cresce in proporzione; Il secondo dipende invece dalla tensione Vcb che, attraverso la corrente fa scorrere in Rbc, aumenta il guadagno apparente di corrente hfe. In conseguenza di ciò la corrente Ic la si può definire anche come:
Il termine Vcb/Rcb (relativamente insensibile alle variazioni di Ic) a causa dell'alto valore di Rcb (che per i transistori di segnale più comuni gira dalle parti della decina di megaohm), incide prevalentemente con correnti di collettore inferiori al milliampere, dove 1/Rce costituisce il termine dominante di hoe; al di sopra del milliampere (come è il caso per T1) diviene invece dominante il termine dipendente da gm che, al di sopra della decina d milliampere di Ic, rimane di fatto l'unico termine da tenere in conto.
Arrivati fin qua è bene farci un'idea "visiva" di come variano i parametri h di un transistor bipolare rispetto alla corrente e alla tensione di lavoro. I parametri sono quelli di un "antico" BC177 tratti da un vecchio databook SGS-ATES di oltre quarant'anni fa... che va bene lo stesso perché oggi lo stesso identico transistor, incapsulato in plastica, ce lo ritroviamo come BC557. È un PNP invece che un NPN ma non importa perché il discorso rimane identico su entrambe le polarità e in linea di massima anche dai tipi di transsistor che si andranno poi realmente ad usare. Il datasheet del BC177 ci serve soltanto per estrarre i grafici sottostanti.
Il primo dei due grafici illustra la dipendenza del parametri h dalla CORRENTE DI COLLETTORE Ic mentre quello subito dopo mostra la loro dipendenza dalla TENSIONE DI COLLETTORE Vce – Notare la diversa scala con cui il parametro di normalizzazione hN viene rappresentato nel primo e nel secondo grafico, che ci informa di quanto sia nettamente più "incisiva" l'influenza della corrente di lavoro Ic che non quella della tensione di lavoro Vce.
Rispetto alle variazioni di corrente di collettore l'unico parametro che rimane di fatto costante (perché realmente indipendente da gm) è il guadagno di corrente hfe; tutti gli altri ne sono invece fortemente influenzati, a partire da hie e hre, i cui andamenti normalizzati sono praticamente coincidenti, seguiti da hoe il cui incremento è di fatto proporzionale a gm e quindi a Ic.
Il secondo dei due grafici mostra invece, per la dipendenza da Vce, una situazione molto più tranquilla, soprattutto una volta che si sia usciti dalla zona di saturazione o quasi-saturazione del primo paio di volt di Vce. I parametri che variano in maniera più marcata ai bassi valori di Vce sono hre e hoe, ovvero quelli direttamente influenzati dalle variazioni di Rbc causate dalla tensione base collettore Vcb; hfe (e hie che la segue direttamente) non subisce nvece quasi nessuna variazione: il suo lieve incremento è dovuto all'effetto Early di cui costituisce la manifestazione più pura e diretta. Per capire un po' meglio la situazione conviene a questo punto guardare un po' più da vicino cosa è veramente Rbc - ovvero come si comporta in dettaglio la giunzione base-collettore quando è polarizzata inversamente e il transistor lavora in zona attiva diretta, la condizione in cui normalmente si trova quando viene usato come amplificatore.
Dentro il transistor
Il transistor, per il modo in cui funziona, è un dispositivo le cui proprietà dipendono dalla stretta vicinanza esistente tra due giunzioni contrapposte e dai loro differenti gradi di drogaggio che, pur dando vita al transistor come tale, rimangono nello stesso tempo DUE GIUNZIONI DISTINTE, con le loro peculiarità e i loro problemi che, pur influenzando e definendo nei vari particolari il comportamento del transistor, NON SONO il transistor (che più che un componente andrebbe inteso come un EFFETTO FISICO) ma soltanto le sue parti costituenti.
Le parti attive costituenti il trasistor sono quattro (due giunzioni contrapposte più due "metacomponenti" che sono la distanza con cui le due giunzioni si affacciano tra loro e l'intensità dei drogaggi con cui vengono costituite le sue tre regioni - collettore, base ed emettitore): di queste, le componenti principali che danno effettivamente vita all'effetto transistor sono solo la distanza tra le giunzioni e i drogaggi delle tre regioni; queste da un lato definiscono il guadagno in corrente hfe, la massima frequenza di lavoro a cui si ricava un guadagno utilizzabile, la velocità di commutazione on-off quando il transistor è usato come interruttore e dall'altro, specialmente la giunzione base-collettore, definisce le massime tensioni di lavoro del transistor stesso.
Le due giunzioni svolgono nel transistor funzioni complementari: 1) la giunzione base-emettitore funge da iniettore di portatori di carica (elettroni se NPN, lacune se PNP), costituendo in ciò il vero e proprio "motore" che immette corrente nel transistor; 2) la giunzione base-collettore funge invece da regolatore in retroazione che fissa i limiti superiori di guadagno in tensione disponibili per uno qualsiasi dei punti di lavoro possibili in zona attiva, limiti che definiscono la "bontà" del transistor come generatore di corrente o, più pertinentemente, come amplificatore a transconduttanza (che controlla la corrente di uscita dal collettore tramite una tensione di controllo Vbe applicata alla giunzione base-emettitore).
Nel circuito equivalente che si usa per analizzare il comportamento dei transistori con segnali a basso livello, finora si è considerato Rbc come una (quasi) resistenza, soprattutto "quasi vera" almeno rispetto a Rbe. In altri casi, con altre esigenze di calcolo, la "quasi resistenza" viene sostituita da un "quasi condensatore" di alcuni picofarad... Ma la verità è che non è né l'una, né l'altra ma è piuttosto un "serbatoio a carica costante" che si forma in una giunzione polarizzata inversamente, la cui tensione applicata "blocca" i portatori di carica presenti nelle adiacenze della giunzione stessa, impedendo loro sia di attraversare la giunzione sia di uscirsene dalla parte opposta, almeno fin quando non viene raggiunta e superata la tensione di rottura della giunzione stessa.
Questo "serbatoio" a carica costante si comporta elettricamente come uno strano condensatore che, al posto di variare la carica al variare della tensione ai suoi capi, varia invece il valore della sua capacità (un effetto, detto "varicap", che viene vantaggiosamente sfruttato negli oscillatori a radiofrequenza per controllarne la sintonia con una tensione variabile anziché meccanicamente tramite un condensatore variabile vero e proprio).
Il "condensatore" Cbc di un transistor non è il solo "componente" dipendente dalla tensione che si crea sulla giunzione base-collettore grazie al suo essere polarizzata inversamente; in parallelo ad esso si costituisce infatti anche una "resistenza" dovuta alla corrente inversa che scorre ATTRAVERSO la giunzione in barba al suo essere polarizzata inversamente.
Questo fenomeno, non è un difetto ma un problema intrinseco ai semiconduttori e alle giunzioni che formano, dovuto al fatto che anche quando polarizzate inversamente non sono mai veramente degli isolatori, né sotto il profilo della rigidità dielettrica né in quello della totale assenza di cariche libere, che anzi agiscono come veri e propri "indebolitori" della rigidità suddetta che, contrariamente a quanto avviene nei veri materiali isolanti (in cui, in caso di superamento dei limiti di tensione la rigidità dielettrica dei materiali viene meno perché questi vengono fisicamente danneggiati o distrutti), viene in un certo qual modo "aggirata" rendendo possibile l'instaurararsi di rotture a valanga delle giunzioni che, per quanto causino la distruzione fisica delle giunzioni portandole alla fusione, non sono tuttavia di per sé fenomeni intrinsecamente distruttivi ma possono anzi essere limitati e controllati (come in effetti avviene nei diodi zener, in special modo quelli a tensione più elevata)
Semiconduttori
Abbiamo accennato poc'anzi al motivo per cui i semiconduttori sono tali; perché hanno di fatto una bassissima rigidità dielettrica e occorre pochissima energia per svincolare gli elettroni dai loro atomi di appartenenza trasformandoli in conduttori - che, pessimi quanto si vuole, a temperatura ambiente sono in ogni caso tali. Il silicio, oggi il semiconduttore più usato in assoluto, possiede alla temperatura ambiente di 20 °C una resistività di 2300 ohm mm2/m, un valore molto elevato che consente di controllarne la conducibilità agendo quasi esclusivamente sulle impurità aggiunte e di subire in maniera meno disastrosa l'effetto delle variazioni di temperatura di quanto non avvenisse con il germanio, usato su larga scala fino all'inizio degli anni settanta del secolo scorso(*).
(*) Il germanio, come semiconduttore, viene ancora oggi usato, in combinazione col silicio, nella costruzione di dispositivi ad altissima frequenza e velocità, dove l'alta mibilità dei portatori di carica al suo interno (quasi tripla rispetto a quella nel silicio) consente di realizzare transistori FET in grado di lavorare anche a diverse decine di GHz. Si tratta però di applicazioni piuttosto specializzate, mentre per quanto riguarda l'uso del germanio come semiconduttore base per l'elettronica generale ha fatto, senza rimpianti, il suo tempo da quasi mezzo secolo.
Nel silicio, di fatto, la quantità di portatori liberi disponibili viene decisa, a temperatura ambiente, quasi per intero dalla quantità di droganti che vi vengono diffusi, permettendo così di creare ottime giunzioni con basse perdite ma soprattutto di caratteristiche molto meglio definite, stabili e riproducibili di quanto non avvenisse usando il germanio. Inoltre ci permette di affontare la situazione di una giunzione polarizzata inversamente in maniera un po' più semplice, trascurando un po' di meccanismi che, pur attivi anche nel silicio, sono meno influenti che nel germanio.
Nel silicio puro, senza impurità, droganti, imperfezioni, "buche" nel reticolo cristallino, tutta la (modesta) conducibilità elettrica esistente a temperatura ambiente è dovuta per lo più all'energia termica che, scuotendo meccanicamente il reticolo cristallino, "butta giù" gli elettroni dai singoli atomi più o meno come, se ci mettiamo a scuotere un albero, vengono giù i suoi frutti. A differenza dei frutti di un albero però, ogni elettrone che "vien giù dall'albero", libero e orfano, lascia nell'atomo un posto vuoto che, rappresentando una carica positiva "per assenza" dell'elettrone che dovrebbe compensarla, ionizza l'atomo interessato rendendolo attrattivo verso qualsiasi elettrone libero che transiti nei paraggi (al limite, specialmente a basse temperature, proprio l'elettrone che se ne è scappato via!).
Via via che la temperatura aumenta (ovvero aumenta l'agitazione meccanica del reticolo cristallino) aumenta la probabilità che gli elettroni che si sganciano dagli atomi vengano sparati in giro a distanze tali rispetto agli atomi rimasti "vedovi", che dal punto di vista energetico diviene per questi atomi più vantaggioso "rubare" un elettrone a un vicino che, a differenza di quello fuggito, se ne sta grossomodo al suo posto e può quindi essere "catturato" più facilmente. E quando questo succede, l'effetto macroscopico del fenomeno non è quello di un "furto" ma piuttosto di una migrazione della carica mancante che, non essendo altro che il trasferimento di una condizione di ionizzazione positiva da un atomo all'altro può, nel complesso del reticolo cristallino, essere visto ANCHE come il movimento di un portatore di carica positiva.
Tale carica è solo il prodotto di uno squilibrio elettrostatico dovuto all'aseenza di un elettrone - la famosa "lacuna" - e quindi, in senso strettamente materiale, non esiste. Ma poichè tale squilibrio deforma nelle sue vicinanze il reticolo cristallino "come se" la lacuna fosse un portatore "solido" a tutti gli effetti... lo si tratta come tale e amen, semplificandosi i conti e la vita di un bel pò. In questo modo, finché i due tipi di portatori (elettroni e lacune, finalmente senza virgolette) non si ricombinano (cioè finché uno degli elettroni a spasso non viene catturato da un atomo ionizzato che ritrova così la sua neutralità elettrica) essi costituiscono a tutti effetti due flussi di carica distinti, di polarità opposta e che si muovono pure in direzione opposta.
È da sottolineare a questo punto come l'instaurarsi di questo doppio flusso di cariche non provenga direttamente dal silicio in quanto tale ma piuttosto dal suo ESSERE ORGANIZZATO IN UN RETICOLO CRISTALLINO che, in definitiva, regolamenta i livelli di energia con cui gli elettroni "scappano" dagli atomi di appartenenza lasciando al loro posto delle vacanze che, sotto forma di lacune, possono sportarsi come reali portatrici di carica. Detto con altre parole: un atomo di silicio ionizzato isolato o dislocato (cioè presente nel cristallo di silicio senza però essere inserito nel suo reticolo) è soltanto un atomo ionizzato e basta che può solo aspettare di riacciuffare l'elettrone perso; è solo il suo appartenere a una struttura reticolare che trasforma il suo stato di ionizzazione in una condizione trasferibile da un atomo all'altro e quindi sfruttabile come una carica elettrica "indipendente" (come in effetti si comporta almeno fin quando rimane all'interno del cristallo), pur rallentata nella sua mobilità rispetto a quella dell'elettrone, dal potersi trasferire praticamente solo tra atomi adiacenti.
Questa "prevalenza" del reticolo cristallino diviene più evidente e "ovvia" quando si passa ad esaminare il silicio drogato, in special modo con elementi trivalenti che generano regioni di tipo "P", nel quale le lacune esistono anche in assenza di qualunque singolo atomo ionizzato: esse esistono qui perché le vacanze energetiche del reticolo (legami mancanti) sono interamente sentite e subite dalla sua struttura e non dai suoi componenti (gli atomi): a differenza che nel caso del silicio intrinseco, quel che viene squilibrata qui non è la neutralità di carica assoluta dei singoli atomi ma piuttosto la geometria dei campi elettrici che ogni atomo del cristallo genera intorno a sé per costituire il cristallo stesso. Uno squilibrio che, generando tensioni meccaniche nel cristallo, inducono la sua struttura a diluirle e a scaricarle continuamente nei dintorni dell'atomo trivalente che le ha causate, in un continuo lavorio che si manifesta a livello macroscopico come vera e propria mobilità intrinseca alla lacuna stessa (una mobilità molto più bassa di quella degli elettroni: nel silicio essi hanno una mobilità più che tripla rispetto alle lacune).
La formazione della giunzione PN
I semiconduttori "P" ed "N", presi singolarmente, si comportano come conduttori più o meno buoni, più o meno influenzabili dalla temperatura, più o meno sensibili all'effetto Hall... ma non fanno molto di più di questo. Le cose diventano invece piuttosto interessanti quando in un unico cristallo di materiale semiconduttore vengono formate, fianco a fianco, due regioni di polarità opposta, dando vita a una giunzione intorno alla quale gli stress elettrostatici del reticolo cristallino di entrambe le regioni "P" ed "N" possono compemsarsi a vicenda... a spese della meutralità elettrica spicciola degli atomi situati nelle immediate vicinanze della giunzione, che si ritrovano ionizzati positivamente (nella regione N) e negativamente (nella regione "P").
La formazione della giunzione PN si manifesta, per il fenomeno appena descritto, con la costituzione di una regione priva di portatori di carica liberi (regione di svuotamento) contraddistinta da due caratteristiche: una tensione di soglia per rendere conduttiva la giunzione in polarizzazione diretta (soglia che dipende dal tipo di semiconduttore usato) e l'estensione spaziale della regione di svuotamento ai due lati della giunzione (che dipende dalla quantità di cariche libere, a sua volta dipendente dalle quantità di droganti diffuse): meno droganti sono presenti e più è estesa la regione di svuotamento - ma è anche più alta la resistività del cristallo semiconduttore usato, soprattutto dal lato meno drogato. Il livello dei droganti diffusi nei semiconduttori viene stabilito sulla base della tensione inversa che deve reggere la giunzione: più questa è elevata e meno intensa deve essere la diffusione di droganti nel cristallo, partendo in ogni caso dal minimo livello di cariche libere disponibili nel semiconduttore intrinseco: nel silicio 1.45 x 1010 cariche libere a temperatura ambiente (da confrontare con le 2.40 x 1013 del germanio - 1655 volte che rendono ragione della notevole suscettibilità termica, con tutti i problemi connessi, del secondo rispetto al primo).
La giunzione base-collettore
La giunzione base-collettore di un transistor lavora, quando lo si usa in zona attiva come amplificatore, sempre polarizzata inversamente e, se una delle due regioni non costituisse anche la regione di base, essa darebbe vita a un diodo a giunzione come tanti altri. Il fatto che invece la regione di base sia parte, a brevissima distanza, di un'altra giunzione, rende le due giunzioni fortemente interagenti tra loro, originando così sia l'effetto transistor sia le sue non idealità di funzionamento, tra cui le più importanti sono l'influenza che la corrente inversa della giunzione base-collettore (b-c) ha sulla corrente di uscita e la dipendenza del guadagno in corrente (beta) dalla tensione inversa applicata a questa stessa giunzione.
Il beta di un transistor è dovuto alla sinergia di alcuni fattori legati da una parte al materiale (velocità di ricombinazione dei portatori di carica nella base, nel tempo in cui transitano in essa durante il passaggio dall'emettitore al collettore) e dall'altra alle dimensioni fisiche della base, soprattutto al suo spessore che separa l'emettitore dal collettore. Inoltre dipende anche dal rapporto tra i droganti esistente tra base ed emettitore (che in effetti ne definisce la maggior parte) di cui però, non influenzando direttamente la conduttanza di uscita del transistor, qui non ci interesseremo.
La conduttanza di uscita del transistor aumenta con la tensione inversa base-collettore da un lato perchè la corrente inversa di questa giunzione aumenta lentamenta con l'aumentare della sua tensione fin quando la giunzione non va in valanga(*) - e l'aumento della corrente inversa aumenta la corrente effettivamente entrante in base, facendo apparire il beta di valore maggiore di quello reale.
(*) fenomeno che, nella connessione a emettitore comune, nel transistor comincia a prendere piede quando la tensione Vce supera il 70 per cento circa della della massima tensione Vceo ammessa, diventando poi disastrosamente elevata quando si raggiunge e supera l'80 per cento di Vceo, un valore che in realtà il transistor regge soltanto in interdizione.
L'altro lato del problema che porta a innalzare la conduttanza di uscita del transistor (anche questo con conseguenze disastrose se non opportunamente limitato) è il restringimento dell'effettivo spessore di base all'aumentare della tensione Vcb, che se da una parte aumenta il valore del beta del transistor, dall'altra riduce però il valore della tensione oltre la quale la giunzione base-collettore va in valanga. Non solo ma essendo lo spessore di base comunque già limitato in partenza, il restringimento della stessa dovuto alla tensione Vcb ha il suo limite nel fatto che il restringimento di essa dovuto all'estensione della regione di svuotamento indotto da questa tensione NON PUÒ E NON DEVE annullare lo spessore della base stessa, pena l'instaurarsi del cosiddetto "punch-trough" che altro non è che un vero e proprio cortocircuito tra emettitore e collettore che avviene proprio grazie al fatto che, in queste condizioni, la regione di base viene di fatto soppressa e con essa anche ogni sua funzione di controllo.
Il fenomeno in realtà esiste tendenzialmente, in forma non distruttiva, a qualunque tensione inversa della giunzione base-collettore ed è la base fisica del cosiddetto effetto Early, in cui l'aumento del beta effettivo del transistor porta all'aumento del parametro hre, quindi all'auento del tasso di retroazione interna al transistor, e per conseguenza anche della conduttanza di uscita.
Torniamo ora al nostro amplificatore...
Tutto il polpettone che ho appena cucinato ha un solo fine e cioè portare a prendere coscienza di quanto, dopotutto, anche il transistor, seppur meglio messo (molto meglio messo!) di altri tripodi attivi, alla fine è anche lui un amplificatore con i suoi problemi e i suoi limmiti. Da quanto detto finora emerge infatti che un amplificatore a bipolari "di segnale" come di solito viene considerato un amplificatore di tensione, resta davvero tale solo se le tensioni e le correnti di lavoro rimangono piuttosto contenuti... e per il nostro finalino ciò è vero solo per quanto riguarda le tensioni di lavoro di T1 mentre rispetto alle sue correnti di lavoro si potrebbe già sollevare qualche obiezione - ed è quel che faremo nelle prossime righe.
Il candidato ideale per T1 dovrebbe avere allo stesso tempo alta transconduttanza di uscita (per massimizzare il guadagno in tensione), alto guadagno in corrente (per minimizzare i problemi di interfaccia con la sorgente) e, per quanto possibile, buona linearità, che si ottiene anzitutto cercando di variare il meno possibile la corrente di lavoro rispetto a quella di bias in assenza di segnale. Anche se non sembra, ottenere tutto questo (per di più, come vedremo, senza disporre di guadagni di tensione tali da consentire un tasso di controreazione sufficiente a ottenere qualcosa di più di una semplice stabilizzazione del punto di riposo del circuito) è praticamente come pretendere di cucinare un piatto che sia allo stesso tempo succulento, saporito e dietetico. Si può fare? Forse... ma dobbiamo valutare bene prima gli "ingredienti" che abbiamo a disposizione per cucinare un tal portento "elettrogastronomico" ;-)
Il carico di T1...
Il guadagno in tensione di T1, come di qualunque amplificatore in transconduttanza, è dato dal prodotto di gmRc, in cui Rc è composto dal parallelo di varie componenti che nel nostro caso si possono riassumere in tre voci: 1) Carico di uscita visto attraverso i finali; 2) Carico rappresentato dal circuito di polarizzazione (semplice resistenza, generatore di corrente, rete di bootstrap...); 3) Impedenza di uscita propria di T1. Nel nostro circuito, a causa del basso valore del carico (i 4 ohm dell'altoparlante) e del fatto che lo stadio di uscita è una coppia di bipolari semplici, la prima voce è di gran lunga dominante rispetto alle altre, che comunque calcoleremo per completezza (anche perché, in schemi più complessi, il loro peso è molto più incisivo che non nel caso nostro).
La seconda componente più importante che, nel nostro circuito, contribuisce a formare il carico su cui T1 sviluppa il suo guadagno è la resistenza Rboost del circuito di bootstrap. Questa resistenza infatti si comporta sì come un generatore di corrente ma solo se ai capi di Cboost non avviene alcuna variazione di tensione in presenza di segnale... variazione che invece avviene e non solo quando la frequenza del segnale scende al di sotto di un dato valore (vedi quanto detto su Cboost e sul suo dimensionamento alcuni paragrafi sopra) ma anche quando le variazioni di corrente sull'uscita divengono consistenti al punto da provocare variazioni di tensione significative sia in termini di Vbe sia in termini di caduta di tensione sulle resistenze di emettitore dei finali (che si sommano alle variazioni di Vbe).
L'insieme di queste due variazioni di tensione si ritrova poi applicato, tramite Cboost da un lato al nodo a cui sono connesse le basi dei finali(*) e dall'altro ai capi di Rboost che, nei confronti di queste tensioni variabili si comporta come una normale resistenza e di conseguenza come tale appare al collettore di T1, anche se non al suo valore nominale(**)
(*) Le basi dei finali, nonostante la presenza dei diodi di polarizzazione D1 e D2, si possono considerare direttamente connesse tra loro in virtù della bassa impedenza dinamica dei diodi stessi - bassa almeno rispetto ai valori delle altre impedenze in gioco sul circuto di uscita di T1.
(**) Questo perché tali variazioni di tensione sono comunque solo una frazione della variazione complessiva di tensione (in sostanza l'intera tensione di uscita dell'amplificatore) che viene gestita sul collettore di T1. Il valore apparente di Rboost è quindi pari a:
Nel nostro circuito il valore apparente ammonta a circa 1900 ohm, un valore ben superiore al valore del carico riflesso dai finali sul collettore di T1 (che vale, con 4 ohm di carico, circa 250 ohm) ma ben lungi dal poter essere confrontato con quello di un generatore di corrente "doc" che vale, anche nei casi più malmessi, almeno dieci volte tanto. Nel nostro caso quindi il bootstrap svolge sostanzialmente il solo ruolo di "ottimizzatore di carico" che evita a T1 di lavorare "al posto" dei finali anziché come loro pilota. In altre situazioni, con circuitazioni più complesse e di potenza di uscita più consistente le cose si fanno meno ovvie ed è anche per questo che, una volta che il costo dei singoli transistor è sceso al punto da rendere il risparmio in circuito di uno solo di essi inconsistente economicamente, si è passati senza rimpianti alla sostituzione del circuito bootstrap con un più affidabile generatore di corrente a transistor, che però, consentendo la disponibilità di guadagni ad anello aperto più elevati, si è portato dietro anche i relativi problemi di stabilità.
...e il guadagno di T1
Arrivati a questo punto, dopo aver appurato che il collettore di T1 di fatto lavora unicamente sul carico riflesso:
(che arrotondiamo prudentemente a 250 ohm; in elettronica è meglio non confidare troppo nella Provvidenza!) possiamo ora determinare il guadagno di T1:
un valore non precisamente da urlo che si smorza ulteriormente tenendo conto che in parallelo a R'load si pone il valore dinamico di R'boost (i 1900 ohm circa che avevamo trovato sul finire del paragrafo precedente) che, fornendo un carico equivalente risultante su T1 di circa 220 ohm, riduce l'amplificazione finale a:
che è proprio tutto quel che ci passa il convento quando il circuito tira fuori tutta la sua "spaventosa" potenza. Inutile dire che, con questi guadagni di tensione parlare di "controreazione" è un po' come definire "vestito" un paio di mutande: sì, qualcosa copre (fondalmente un po' di deriva termica) ma niente di che! Ma per stabilizzare il punto di lavoro è pur sempre meglio di nulla..
Polarizzazione... e circuito finale
Il circuito di cui abbiamo parlato finora per poter funzionare, con o senza bootstrap, deve essere polarizzato; ovvero occorre far arrivare alla base di T1 una corrente che lo "accenda" al punto giusto in modo da far sì che, in assenza di segnale, l'uscita lavori ad una tensione di riposo pari (poco più poco meno non ha grande importanza) alla metà della tensione di alimentazione. L'elemento che concretamente attiva la base di T1 è la resistenza Rb che collega appunto la base di T1 al nodo di uscita a cui si connettono le resistenze di emettitore dei finali.
Se i transistori fossero ideali e ci si potesse davvero fidare dei loro guadagno in corrente, basterebbe dimensionare Rb in modo da far scorrere su questa resistenza la corrente Ib richiesta da T1 su una tensione pari a metà della tensione di alimentazione e sottratta da essa una Vbe. Disgraziatamente però i transistori ideali proprio non lo sono e questo ci complica un po' le cose, come si può ben vedere nel circuito qui sotto.
In questa (per ora...) ultima versione del circuito, ho aggiunto in uscita la cella RC di Boucherot, una cella che serve a diminuire la reattività del carico e che si mette quasi sempre a mo' di cavallo di Frisia contro l'induzione di instabilità in circuiti retroazionati da parte di carichi bizzosi dal punto di vista reattivo. Nel nostro caso è quasi soltanto un complemento estetico ma lo è molto meno in circuiti più complessi e dotati di maggior guadagno di anello. Esso va SEMPRE usato quando si usano amplificatori monolitici integrati di qualsiasi tipo, salvo esplicito avviso contrario.
Come si può vedere, lo schema, soprattutto intorno alla base e all'emettitore di T1, si è complicato un po' e per buone ragioni: 1) rendere il punto di lavoro indipendente dalle variazioni del beta di T1; 2) desensibilizzare il circuito rispetto alle variazioni di Vbe indotte dalle variazioni di temperatura, salvaguardando nei limiti del possibile il guadagno in tensione dispnibile al collettore di T1; 3) proteggere e possibilmente migliorare il valore dell'impedenza di ingresso. Vediamo ora in dettaglio questi tre punti e nello stesso tempo anche come sono stati dimensionati i nuovi componenti aggiunti.
1) Proteggere ll punto di lavoro di un transistor dalle variazioni del suo beta significa semplicemente assumere per "vero" un valore di beta sicuramente inferiore (tipicamente un decimo) al valore che quel transistor esibisce alle correnti di lavoro che si è scelto per la sua polarizzazione (una scelta nel nostro caso imposta dalle necessità di pilotaggio dei finali; in altri casi possono invece essere maggiormente vincolanti altri aspetti; non esiste un criterio univoco per scegliere la corrente di riposo di un tripode attivo: oltre all'ovvia esigenza di soddisfare la "fame" di corrente del carico che questo deve pilotare, vi sono anche quelli legati all'ottimizzazione del suo funzionamento rispetto alle frequenze a cui deve lavorare, alla minimizzazione del rumore di fondo ecc.).
Per far sì che il "beta ridotto" che andremo a utilizzare per polarizzare il transistor che interessa non si riduca a una miseria, occorre scegliere tra i tipi disponibili in commercio quello che offrano il beta minimo più alto possibile. Nel nostro caso non è un gran problema ma può divenirlo a tensioni di lavoro più elevate, in cui beta elevato, elevata tensione massima sopportata e buona capacità di reggere gli stress termici senza rischiare di incorrere in rotture a valanga disastrose sono esigenze direttamente conflittuali tra di loro.
Per le necessità del nostro finalino ho scelto un BC549C(*), reperibile presso qualsiasi sfornatutto grazie al fatto che il suo chip è in pratica parte non solo della storia dei transistori al silicio ma fa di fatto parte dell'ABC della tecnologia planare. Il suo beta minimo alle correnti di lavoro che ci interessano (14-15 mA circa) è un bel 420 che, considerato per un decimo di tal valore, esibisce un ancora confortevole beta intorno a quaranta, che ci permette già di sbozzare un primo valore per Rb che, a partire dalla tensione di uscita a riposo di 6 volt, polarizzi la base di T1:
dove il simbolo β' sta naturalmente a indicare il "beta ridotto".
(*) Tranquillamente sostituibile con uno qualunque della miriade di transistori equivalenti, purché designati dal suffisso "C" - e quindi anche dal BC548C ma non dal BC547 o tantomeno BC546 in cui la selezione "C" in realtà non esiste dal punto di vista FISICO, anche se ovviamente esistono come sigla, soprattutto quelli marchiati da produttori da cui è meglio girare alla larga!
2) Desensibilizzare il circuito di T1 rispetto alle variazioni di Vbe è un altro modo di indicare l'applicazione di una retroazione locale (in questo caso sull'emettitore di T1) che contrasti la tendenziale diminuzione (–2mV/°C) della tensione di polarizzazione della giunzione base-emettitore. Poiché questa diminuzione provoca l'aumento della corrente che esce dall'emettitore, si usa proprio questo aumento per generare tramite una resistenza in serie all'emettitore una tensione la cui variazione avvenga in senso opposto a quello della Vbe. Nel nostro circuito la resistenza incaricata di questa azione di contrasto è ReT1 da 18 ohm, che a riposo genera 270 mV e... ahimè, anche qualche problema.
Infatti questa resistenza, pur necessaria, non è innocua, anzi; in primo luogo i suoi 270 mV di caduta si sottraggono alla massima tensione di uscita negativa togliendo quindi un altro mezzo volt "grasso" alla massima tensione di uscita indistorta (si fa per dire!) altrimenti disponibile. In secondo luogo, se non è robustamente disaccoppiata, essa riduce drasticamente la transconduttanza del circuito e quindi anche il suo massimo guadagno in tensione disponibile (che si ridurrebbe infatti a poco più di 12).
Poiché ReT1 deve solo contrastare le variazioni della Vbe in condizioni di assenza di segnale, il porgli in parallelo un robusto condensatore di disiaccoppiamento dovrebbe risolvere ogni problema... o no? Purtroppo no, almeno non con i transistori bipolari la cui alta transconduttanza e guadagno in tensione hanno un rovescio della medaglia, cioè una bassa impedenza di uscita di emettitore (meno di due-tre ohm nel nostro caso) che rende il suo diasaccoppiamento un problema che, a differenza che nei casi di disaccoppiamento di source o di catodo (la cui impedenza di uscita è solitamente dell'ordine di almeno qualche decina o anche centinaia di ohm), va affrontato con mezzi adeguati, cioè condensatori dell'ordine almeno dei 1.000-2.000 microfarad che sono peraltro, nel nostro caso, lo stretto necessario, a malapena sufficiente per consentire al nostro circuito una gamma bassa un po' migliore di quella di un citofono.
La cella RC sull'emettitore di T1
Sebbene oggi non sia più un problema reperire condensatori di valore elevato a bassa tensione di lavoro (nella serie da 6,3 volt di lavoro si arriva anche a 3,3 mF con ingombri più che accettabili), rimane comunque un problema il loro uso in circuiti che, per la loro non linearità intrinseca, sono a tutti gli effetti dei raddrizzatori - e tra questi vi è proprio l'emettitore di un transistor, che per sua natura porta in dote un problema che, comunque presente anche con altri tripodi attivi, con i bipolari assume proporzioni seriamente invalidanti per la linearità del circuito: il circuito di emettitore diviene di fatto un rivelatore di picco del segnale presente sulla base (per inciso, lo stesso tipo di rivelatore che si usa per fornire segnale ai VU-meters), il cui punto di lavoro statico varia così nel tempo arrivando, in casi limite, a interdire il transistor che, in questa situazione, resta interdetto o malpolarizzato in una sorta di "classe B dinamica" (il colmo per un transistor che nominalmente lavora in classe A!) che è tanto più duratura e dannosa quanto più grande è il condensatore di emettitore usato per disaccoppiare ReT1.
Questo problema, nel nostro circuito come in altri simili, è dovuto non tanto al condensatore in sé quanto al suo essere un INTEGRATORE, ovvero una entità che MEMORIZZA la variazione di una certa quantità (in questo caso una quantità di carica elettrica) in un dato intervallo (in questo caso un intervallo di tempo) sotto forma di variazione di un suo parametro (la tensione ai capi del condensatore stesso). In un circuito lineare sottoposto ad un segnale variabile in tensione, l'unica cosa che il condensatore può integrare/memorizzare in modo permanente è soltanto, se c'è, un eventuale valor medio diverso da zero che si ritrova ai capi del condensatore stesso sotto forma di tensione. Tutto il resto, pur subendo nell'attraversamento del circuito tutte le possibili influenze in termini di sfasamento e variazioni di ampiezza che un condensatore può impartire al segnale rispetto alla sua composizione in frequenza e alle costanti di tempo che il suo percorso forma con il condensatore stesso, non lascia alcuna variazione permanente nel tempo.
Ciò non è più vero in un circuito non lineare com'è quello formato dalla giunzione base-enettitore di un transistor in cui, a causa della variazione di transconduttanza prodotta dalla variazione della sua corrente di collettore, il segnale viene amplificato in modo differente tra le due metà (positiva e negativa), da cui consegue un valor medio diverso da zero che può spostare il punto di lavoro del circuito, soprattutto se vi è una costante di tempo sufficientemente lunga (decimi di secondo in un circuito audio) in grado di integrare i picchi di segnale alla stregua di un VU-Meter.
Il problema qui sopra descritto, nel nostro circuito come in altri simili che impiegano condensatori sull'emettitore, è mitigabile (ma non eliminabile) con uno stratagemma: accoppiare il condensatore di emettitore (Ce'T1 nello schema a una seconda resistenza di emettitore (che abbiamo chiamato Re'T1), che pur introducendo una retroazione locale che ridurrà inevitabilmente il massimo guadagno disponibile sul collettore di T1, lo riduce molto meno drasticamente di quanto la ridurrebbe la sola ReT1. In pratica quello che si ottiene in questo modo è una controreazione locale avente due tassi di retroazione; uno più robusto che vede in azione la sola ReT1 da 18 ohm e un'altro, attivo solo in presenza di segnale, che ponendo in parallelo a ReT1 la resistenza Re'T1 da 6,8 ohm, abbassa a partire da circa 67 Hz la resistenza complessiva vista dall'emettitore a un valore di poco inferiore ai 5 ohm, che consente di mantenere un guadagno in tensione residuo sul collettore di T1 a circa 45, un valore più che triplo rispetto a quello consentito dalla sola ReT1 da 18 ohm.
Questo guadagno va confrontato con quello effettivamente utilizzato nel circuito, che nel nostro caso è dato in prima istanza da:
dove R'b2 è la risultante tra il parallelo della resistenza di polarizzazione Rb2 e l'impedenza di ingresso in base del transistor T1, a sua volta data da:
che in parallelo ai 2700 ohm già presenti come resistenza reale di polarizzazione, porta all'effettivo valore dell'impedenza di ingresso di T1 così come è impiegato in questo circuito, un sì misero ma anche ragionevolmente costante 1300 ohm circa, da comfrontarsi con l'ancor più misero (e tutt'altro che costante!) 700 ohm che T1, con una Ic di 15 mA(*) è in grado di esibire per conto suo (e solo in selezione "C"; con le altre selezioni non si va oltre i 500 ohm di hie).
(*) Nel corso del testo il valore di Ic è "ballato" un po' tra i 15 e i 17 mA; anche se in senso strettamente tecnico è una imprecisione da quattro in condotta con pedata accademica, in realtà è un fare di necessità virtù con la realtà quotidiana: i componenti "su misura" vengono fatti, a prezzi dal salato al salatissimo, solo in poche e oculate circostanze dove è realmente richiesto. In tutti gli altri ci si accontenta di quel che c'è e vi ci si adatta di conseguenza, altrimenti si corre il rischio di fare oreficeria invece di elettronica!.
Conclusioni
L'amplificatore a cui siamo giunti finora è più o meno, per quanto riguarda lo stadio di uscita, il punto di arrivo a cui si era giunti nella prima metà degli anni sessanta del secolo scorso; di strada se ne era fatta tanta... ma ne rimaneva da fare altrettanta. Nel frattempo ci si arrangiava attorno ai problemi come meglio si poteva... e altrettanto facciamo ora noi.
A prima vista il nostro finalino sembra essere un completo disastro: un'impedenza di ingresso di poco superiore ai 1300 ohm, un guadagno massimo in tensione ridotto dalle retroazioni/stabilizzazioni locali a sole 45 volte, che nell'uso pratico si riduce ulteriormente a soli 12 volte a causa della rete di polarizzazione e, buon ultimo, fortemente dipendente dall'impedenza della sorgente. Quest'ultima in effetti è ciò che "decide", nel campo di valori compreso tra le 12 e le 45 volte, l'effettivo guadagno in tensione del circuito.
I due casi estremi, completamente ideali e irrealistici, sono un'impedenza di sorgente infinita (ingresso pilotaggio da un generatore di corrente) che limita il guadagno Av in tensione al minimo di 12, e all'opposto una impedenza di sorgente nulla (ingresso pilotato da un generatore di tensione) che consente di ottenere il massima guadagno possibile (Av pari a 45). la differenza maggiore tra le due situazioni consiste nel fatto che in caso di guadagno minimo avanza un po' di retroazione (3,75 volte, una decina di dB, mica una torta!) per mitigare la distorsione di incrocio nei transistori di uscita, mentre in caso di guadagno massimo non avanza nulla: la sola retroazione che riduca un po' la distorsione del circuito è soltanto quella locale costruita intorno all'emettitore di T1. D'altra parte mentre la prima situazione impone al circuito preamplificatore di "pompare" più tensione di ingresso per ottenere l'intera potenza di uscita disponibile, la seconda permette quasi di poter fare a meno di uno stadio preamplificatore (bastano 130-140 mV di picco per ottenere l'intera potenza di uscita).
La cruda verità è che in questa situazione non c'è molto da guadagnare né da perdere in nessuna delle due situazioni e quindi tanto vale accontentarsi della via di mezzo: una impedenza di sorgente più o meno pari a quella di ingresso (un preamplificatore a emettitore comune caricato sul collettore da un resistore da 1000 ohm potrebbe essere un buon suggerimento) che raddoppi il guadagno di tensione di T1 portandolo a circa 25 e riducendo la tensione di pilotaggio necessaria per la massima uscita a circa 250 mV di picco, sensibilità assai più affine alle disponibilità in uscita delle sorgenti audio più andanti (soprattutto quelle dei cellulari, oggi la sorgente più usata).
Prima di chiudere questo articolo è doveroso precisare che i parametri ibridi sono stati usati fino alla fine degli anni settanta, cioè fino a quando si sono progettati amplificatori a transistori basati su singolo dispositivo attivo, per poi scomparire dai datasheet (e un po' più lentamente anche dai libri di testo) già prima della fine degli anni ottanta.
Le ragioni di questo declino e scomparsa penso siano sostanzialmente tre: la prima è stato l'avvento di operazionali di prestazioni sempre migliori (e di costo sempre minore) che hanno semplicemente soppiantato i transistori in tutte le applicazioni in cui era "soltanto" richiesto di amplificare in quanto con gli operazionali questo veniva ottenuto in modo più semplice e diretto. La seconda ragione che secondo me ha causato la scomparsa dei parametri ibridi è legato al crollo spettacolare dei prezzi che hanno subito i transistori a partire dagli anni ottanta; il loro essere arrivati a costare quasi niente ha avuto l'effetto di incoraggiare un loro impiego più esteso e sofisticato, rendendo più pratico all'occasione progettare "integrati a discreti" che non l'andare dietro a imbestialirsi sulle proprietà (e i limiti) dei singoli transistori quando era di gran lunga più semplice e diretto utilizzarne più di uno per una data applicazione.
Infine una terza ragione di caduta in disuso dei parametri ibridi è legata al fatto che, una volta affinata la padronanza e comprensione dei transistori in chi li doveva usare, la lista di parametri realmente utili dei transistori che non fossero ricostruibili da altri solitamente elencati nei datasheet, si è ristretta moltissimo e in pratica si sono ridotti a: limiti massimi di lavoro in tension e in corrente; valori delle massime correnti di perdita delle due giunzioni coinvolte, beta e suo andamento con la corrente di collettore, frequenza di taglio FT, capacità di giunzione e tempi di commutazione. Tutti parametri che se ben studiati e ponderati permettono di risalire a quasi tutto quel che occore davvero sapere per usare i transistori con sicurezza e, diciamolo francamente, anche senza prendersi in giro da soli prendendo lucciole per lanterne, o peggio, prendendo per "garantiti" prametri che invece non lo sono affatto.
Infine, in chiusurissima: questo articolo non è né una bibbia né un "riferimento" ma soltanto un tentativo di passare il tempo, oltre che a bestemmiare di continuo contro le cose che mi stanno andando di traverso da un po', scrivendo qualcosa che abbia un minimo di utilità (certo non sempre immediata) anche per gli altri. Il tema richiederà probabilmente altri sviluppi ed estensioni, soprattutto per arrivare agli sviluppi più recenti che, pur apparendo oggi quasi banali o addirittura noiosi, rappresentano tappe di una evoluzione tecnologica e anche culturale che ho visto svilupparsi da che sono al mondo e ancora non accenna a smettere.
Buona lettura!